Lo spettro globale dell’insicurezza alimentare per molti, ovvero l’uso spregiudicato di un antico strumento di guerra come la fame, il controllo sul cibo che porterebbe lontano gli effetti dell’invasione russa dell’Ucraina. L’allarme (325 milioni di persone a serio rischio secondo proiezioni Onu), il “ricatto”, la razzia come bottino di guerra.

IL GRANO UCRAINO bloccato nei silos dal conflitto è sempre più al centro della crisi. Sia che venga fatto scivolare dai «ladri russi» nella pancia dei cargo diretti in Siria o Libano, come denunciato da più parti anche in Europa, video alla mano. Sia che trovi un modo alternativo per prendere il mare, come si è dimostrato di poter fare ieri con il primo carico giunto in treno, via Polonia, al porto lituano di Klaipeda.

Il direttore del Programma alimentare mondiale (Pam) David Beasley si appella al presidente russo Vladimir Putin per la riapertura dei porti ucraini. I russi fanno sapere di avere intanto sminato quello di Mariupol, che li riguarda da vicino. Le navi straniere che volessero salpare da oggi possono farlo, assicura il comando russo. È anche un modo per tornare a sostenere che il problema non è la flotta russa ma la quantità di mine ucraine presenti in quelle acque.

LA GUERRA ENTRA ANCHE COSÌ nel suo quarto mese, scendendo un altro scalino verso il fondo che non lascia filtrare spiragli di pace. Neanche a parlarne. Il famoso piano italiano è finito per ora nelle triangolazioni non proprio fluide degli apparati governativi russi: lunedì era «allo studio» del ministero degli Esteri e ieri era ancora «in attesa di riceverlo per esaminarlo» il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. Un prendere tempo accolto in Italia come “apertura”, visto che poco prima era stato cestinato in quanto di «puro flusso di coscienza scollegato dalla realtà» da Dmitry Medvedev, attuale vicepresidente del Consiglio di sicurezza, ex premier ed ex presidente. Che in particolare se la prende per l’idea della Crimea autonoma parte integrante dell’Ucraina che il piano di Roma, a suo dire, prospetta.

A MOSCA, IN ATTESA che la Corte suprema decida lo status e di conseguenza un pezzo della sorte dei prigionieri del battaglione Azov – rispondendo alla domanda se trattasi o meno di «organizzazione terroristica» – il parlamento (camera bassa) lavora per rendere la vita difficile ai media stranieri, equiparandoli in pratica a quelli locali per quanto concerne la passibilità di ritiro della licenza «in caso di diffusione di notizie volte a screditare le forze armate russe o collegate all’introduzione di sanzioni». La legge ha agevolmente superato ieri il primo passaggio alla Duma.

Ma la messa al bando del giorno, dopo i quasi mille vip della politica e della società Usa colpiti da analoga misura nei giorni scorsi, riguarda 154 membri della Camera dei Lord (camera alta), interdetti dal suolo russo «in risposta alla lista di sanzioni – recita il comunicato del ministero degli Affari esteri – con cui il governo britannico in marzo ha colpito praticamente tutti i membri del Consiglio della Federazione».

LE PAROLE DA CONTROFFENSIVA economica lanciate da Putin il giorno prima sull’economia russa che in barba alle sanzioni «resterà aperta», prefiguravano un nuovo ordine della logistica globale con promettenti corridoi da e verso quei paesi che si sono distinti dal coro di unanime condanna dell’invasione russa. Un po’ come il Sudafrica, da dove ieri il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha bacchettato come «inaccettabile» la scelta di alcuni paesi (africani) di «votare dalla parte della Russia». Pretoria nella fattispecie si è astenuta, ma Ramaphosa non ha mancato di rincarare la dose con toni molto critici nei confronti di Nato, Usa e Ue.

Per il resto nella conferenza stampa congiunta di ieri Scholz ha esaltato «l’idea di democrazia che ci accomuna» e le possibilità di cooperare di più nel campo della ricerca scientifica e in quello dell’educazione. Ramaphosa ha auspicato un ruolo attivo dell’Unione africana per portare Kiev e Mosca al tavolo, caldeggiando una missione in tal senso, magari a nome di chi è certo che in mancanza di pace, o almeno di un cessate il fuoco, rimarrà anche senza pane. Magari non sarà decisiva, ma comporta meno rischi rispetto a quella che s’annuncia su iniziativa estone nel mar nero, dove i paesi europei sono chiamati a scortare le navi che dovessero riuscire a salpare con il loro carico prezioso.