Sea-Watch 3 soccorre un gommone con 45 migranti
#ilmanifestodibordo L’intervento a 33 miglia a nord ovest di Zawiya. Tra i superstiti 5 donne e 15 minori
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A terra le agenzie battono dei numeri, ma qui sul ponte di poppa della Sea-Watch 3 ci sono 45 persone. Provavano ad attraversare il mar Mediterraneo su un gommone giallo simile a un grande canotto, di quelli che in estate si usano per andare dalla spiaggia alla boa. Nessuno aveva il giubbotto di salvataggio, due o tre uno zainetto con qualcosa dentro, tutti viaggiavano scalzi. Nel gommone c’erano cinque ciambelle gonfiabili nere, sei cassette da 12 bottiglie d’acqua piccole e sette taniche di benzina grandi. Una si era ribaltata e parte del liquido infiammabile si era versato all’interno, mischiandosi all’acqua, sopra la scritta Kaimaplex stampata a righe oblique sul fondo di plastica.
INTORNO alle 6.30 l’equipaggio della nave umanitaria avvista il gommone sul radar. Pochi minuti dopo il centralino Alarm Phone lancia l’Sos. Chi sta dormendo viene svegliato da chi ha il turno di guardia sul ponte di comando. Le due squadre dei Rhib, i gommoni utilizzati per le operazioni di soccorso, si preparano alla svelta. Alle 7 l’imbarcazione compare all’orizzonte. Quaranta minuti dopo, la prua del primo Rhib la avvicina da dietro all’altezza del motore.
Le persone muovono le braccia. Salutano. Un ragazzo si commuove. Hanno capito che non siamo i libici. Claire Schmitt, la mediatrice culturale, spiega che saranno soccorsi, chiede di stare calmi e rimanere seduti. Ogni tanto qualcuno volge gli occhi al secondo Rhib, che osserva la situazione da dietro, pronto a intervenire in caso di emergenza. Alcuni di questi sguardi sembrano preoccupati, soprattutto quando dalle radioline che comunicano con la nave escono voci metalliche. Le mascherine coprono i sorrisi, ma basta un gesto con le mani per tranquillizzare gli animi. Va tutto bene.
I soccorritori si avvicinano al gommone dei migranti, foto di Selene Magnolia
VIENE SPIEGATO come indossare i giubbotti di salvataggio e inizia la distribuzione. Prima quelli per i più piccoli, un bebè e una bambina con le treccine, poi i tredici minori e le cinque donne, infine gli adulti. Man mano l’arancione fosforescente dei giubbotti colora l’interno del gommone giallo. Sullo sfondo il mare è blu scuro.
I soccorritori si muovono verso la punta del Rhib e con i corpi compongono una porticina da cui fanno entrare ordinatamente le persone. Le mani passano i bambini da una parte all’altra. Una donna scavalca con difficoltà e contrae il volto in una smorfia di dolore: è incinta. Un paio di uomini non si sentono bene e hanno difficoltà a stare in piedi. Uno era seduto sul fondo del gommone ed emana un forte odore di benzina. Gli altri lo aiutano.
«God bless you» («Dio vi benedica») grida una ragazza appena il Rhib è sul fianco della Sea-Watch 3, all’altezza della scritta gialla che dice: «Rescue zone», «zona di salvataggio». Qualcuno saluta i membri dell’equipaggio che si affacciano dal ponte in alto, qualcun altro con gli occhi ringrazia il cielo. Il trasferimento dal Rhib alla nave avviene in movimento. Le persone salgono una per volta attraverso un varco tra le protezioni del ponte in basso: due soccorritori li sorreggono da sotto e altri due, assicurati con dei ganci, li tirano dall’alto sul ponte principale. Adesso sono tutti al sicuro.
Dal Rhib alla Sea-Watch 3, foto di Selene Magnolia
AL PERSONALE medico raccontano di essere partiti la notte precedente dalla città libica di Zawiya insieme a un’altra barca, che però si è ribaltata subito. Tutti i migranti sarebbero riusciti a tornare a riva. «Se stai un mese in Libia non hai più paura di bouzar», racconta Youssouf, un ragazzo del Mali. Bouzar o bouzaraller significa attraversare il mare. Il ragazzo ci ha provato quattro volte. La prima il 6 aprile dell’anno scorso su una barca con 104 persone. Quattro sono morte. Le altre intercettate e riportate in Libia. «Ho avuto paura, ho pensato che non ci avrei riprovato, ma poi mi sono fatto coraggio. Perché la Libia è un paese in cui i neri non hanno diritti, non valgono niente. E non solo i neri, anche tutti gli altri stranieri. I libici girano sempre armati e noi siamo come dei polli a cui dare la caccia. Si finisce in carbusc per niente. C’è chi sta dentro tre mesi, chi sei, chi ci muore. In prigione ti picchiano ogni mattina. Ogni mattina. Tu chiami i parenti per chiedere di mandare i soldi. Se non li mandano rimani dentro. Per bouzar servono i soldi».
DICONO di aver pagato circa 3000 dinari libici per la traversata. Corrispondono a poco più di 550 euro. Metterli da parte non è facile. «In Libia concordi un prezzo, fai un lavoro e poi arriva il padrone e ti caccia senza darti niente. Perché lui è libico e tu no – racconta un ragazzo della Costa d’Avorio – E poi c’è il darour». Significa lavoro forzato. «Ti prendono per strada, ti minacciano con le armi e devi farlo. Se provi a scappare ti sparano».
Dove vuoi andare? «Non lo so ancora, ma va bene qualsiasi paese in cui ci siano i diritti umani. Anche su questa nave se posso lavorare», dice scherzando. Alle nostre spalle la bambina con le treccine gioca con due ragazze di Sea-Watch. Non ha mai pianto durante tutta l’operazione di soccorso. Neanche quando è stata sollevata nel vuoto per due volte, neanche quando è stata divisa dalla madre.
ALL’ORIZZONTE intanto è comparsa la motovedetta Fezzan, regalata nel 2018 dal governo Lega-5 Stelle ai libici per contrastare le partenze delle persone. Ha puntato un barchino di legno su cui viaggiano in sei o sette. Li intercetta e li costringe a salire a bordo. «Siete in acque libiche, uscite immediatamente», dice via radio al ponte di comando della Sea-Watch 3. Ma la nave è a 30 miglia nautiche dalla costa, fuori dalle 12 miglia di acque territoriali e anche dalle 24 della fascia contigua. Allo schermo collegato al segnale satellitare Ais non si può mentire. «Siamo in mare libero», risponde Nils Seiler, il capitano.
La motovedetta si allontana a tutta velocità per ripassare vicino alla nave un paio d’ore dopo. Questa volta a bordo si vedono venti o trenta persone. Deve aver catturato un’altra imbarcazione. Rivolge la prua verso la Libia per riportare a terra i fuggitivi.
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