Se lo sguardo del cinema si confronta con la realtà
Cannes 72 Alla Quinzaine «On va tout péter» di Lech Kowalski, una fabbrica in lotta contro la chiusura. Il regista cerca nelle voci, nei gesti, nei luoghi delle risposte che non saranno mai definitive
Cannes 72 Alla Quinzaine «On va tout péter» di Lech Kowalski, una fabbrica in lotta contro la chiusura. Il regista cerca nelle voci, nei gesti, nei luoghi delle risposte che non saranno mai definitive
La realtà a volte è molto peggio della finzione. Il vecchio «adagio» ritorna all’improvviso in mente a Lech Kowalski nella fabbrica occupata della GM&S a La Souterraine, dove da settimane sta seguendo la lotta degli operai contro la chiusura, e contro gli accordi tra vecchi e nuovi padroni che prevedono il licenziamento di oltre la metà di loro – ne rimarranno 120 su 277 – senza alcuna indennità e senza neppure la liquidazione visto il dichiarato fallimento. Quasi tutti hanno cinquant’anni e trent’anni di lavoro alle spalle, la GM&S produce pezzi di ricambio per le automobili per Psa (Peugeot e Citroen) e Renault ma la richiesta si è abbassata, o meglio come scopriranno ben presto, la produzione è stata spostata altrove, in quei paesi dove gli accordi coi governi permettono di pagare i lavoratori molto meno senza dover rispettare alcun diritto.
LORO minacciano di far saltare tutto in aria, hanno «minato» la fabbrica con bombole di gas, bruciano pezzi inutilizzati ma può bastare per ottenere qualcosa? Anche la «vecchia» strategia di bloccare la produzione non funziona più visto appunto che è stata delocalizzata, dunque si devono pensare nuove tattiche. Lech Kowalski lì ci è arrivato mesi prima insieme a due operai che hanno vissuto la stessa battaglia anni fa, alla Sodimatex di Crepy-le Valois, e che lui aveva filmato, anzi all’inizio il film voleva tornare a quell’esperienza otto anni dopo, per vedere cosa era accaduto, molti degli operai erano depressi, non avevano più trovato un lavoro. Poi ha scoperto l’occupazione a La Soutarraine, e ha iniziato a filmare quei lavoratori per sette mesi, insieme a Odile Allard, (suo il suono, condiviso con Kowalski il montaggio) in segreto, senza informare nemmeno Arte, che lo ha prodotto e che ha scoperto il cambiamento quando è stato arrestato alla prefettura di Guéret.
MA QUESTA è la poetica e politica di Kowalski, una «prima persona» che in ogni film interroga, anche fisicamente, con la sua macchina da presa la realtà con cui si confronta senza sottrarsi ai dubbi, alle contraddizioni, cercando nelle voci, nei gesti, nei luoghi delle risposte che non saranno mai definitive. Cosa significa filmare la lotta oggi? Quali sono le domande e i differenti punti di vista da mettere in campo? È questo che si chiede On va tout péter, presentato ieri alla Quinzaine des Realisateurs, dove sul palco alla fine della proiezione sono saliti insieme a Kowalski gli operai protagonisti del film consegnandogli una Palma d’oro speciale, fatta con l’acciaio, la materia che – dicono – «abbiamo sempre lavorato». Tutto comincia parlando di pesca sportiva, uno dei protagonisti spiega le qualità dell’esca, la sua storia, è la sua passione, quella di sua moglie è invece collezionare vecchie bambole. Entrambi nella piccola casa di una provincia francese uguale a tante altre aspettano, cercano di resistere all’angoscia dei giorni feriali – «il week end quando nulla può accadere è il momento migliore» – alle lacrime di frustrazione e di rabbia che a volte sono più forti di loro. La fabbrica è occupata, contro l’incertezza del governo, dei dirigenti, di Macron che arriva e riesce solo a esibire promesse (fasulle) e frasi di circostanza, gli operai cercano di organizzarsi. Da soli, anche se hanno l’adesivo dei sindacati sul giubbotto, provando a reinventare le forme della lotta. Non è difficile cogliere in quel disagio e in quelle ansie (e anche nelle forme di lotta) molte delle ragioni all’origine dei Gilet Jaunes, un movimento di estremamente differenziato la cui esistenza però rimanda anche a questi vuoti, istituzionali e di rappresentanza. Se occupare la fabbrica non è sufficiente gli operai della GM&S andranno a bloccare le altre fabbriche coi bus noleggiati grazie a collette da tutto il Paese, le autostrade, sfidando i Crs, la polizia man mano sempre più aggressiva, accompagnati da televisioni e dai cellulari che riprendono e diffondono quando accade.
A PARTIRE da qui Kowalski costruisce un paesaggio emozionale e politico, la Francia delle strade e delle case tutte uguali, delle fabbriche perdute in un nowhere somiglia agli orizzonti dell’America, stessa marginalità, precari e disoccupati, corpi ingrossati dai cibi mai sani, la logica di un capitalismo che si espande secondo logiche – e effetti – globali. Le immagini, i fatti, la narrazione sono scanditi dalle domande del regista, dai suoi dubbi, dalle scoperte. È questa una rivoluzione? O è piuttosto una forma di resistenza per difendere la propria vita? Fare saltare tutto, diversamente dal «no future» dei punk narrati nei suoi primi film, è un modo per cercare di salvaguardare quanto si è riusciti a avere fino allora. E insieme il tentativo di riprendere una voce negata, di non farsi divorare dalla logica del nostro tempo. E questa posizione del regista, essere «dentro» e insieme dialogare, mettendosi in discussione, con le proprie immagini rende On va tout peter un grande film. Non siamo nella cronaca sempre uguale dei telegiornali o nel magma di notizie che producono anestetizzata indifferenza: il film di Kowalski somiglia a un western, di quelli sospesi e stralunati – alla André de Toth – in cui gli «eroi» come in una vecchia ballata sono destinati alla sconfitta. Ma quel che conta è la loro battaglia, il loro gesto nel mondo.Così come la dichiarazione di un cinema che prova ancora a scuotere le certezze.
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