Se è il governo a creare insicurezza
«Ci vorrebbero 80 anni» ha dichiarato il ministro Salvini. A questa tardiva presa d’atto pubblica sull’impossibilità di espellere i circa 500.000 cittadini stranieri presenti in Italia senza un titolo di […]
«Ci vorrebbero 80 anni» ha dichiarato il ministro Salvini. A questa tardiva presa d’atto pubblica sull’impossibilità di espellere i circa 500.000 cittadini stranieri presenti in Italia senza un titolo di […]
«Ci vorrebbero 80 anni» ha dichiarato il ministro Salvini. A questa tardiva presa d’atto pubblica sull’impossibilità di espellere i circa 500.000 cittadini stranieri presenti in Italia senza un titolo di soggiorno, l’unica azione sensata conseguente sarebbe il ritiro della proposta – messa nera su bianco nello schema di decreto-legge circolato, pronto per il Consiglio dei ministri – di eliminare la protezione umanitaria dal nostro ordinamento e di tutte le altre misure previste che sembrano mirare ad aggravare, più che a risolvere, le situazioni di esclusione sociale nel paese.
Pare infatti che il ministro si sia accorto solo ora che il numero di espulsioni ogni anno si aggira su cifre molto basse vista la complessità delle operazioni di rimpatrio (nel 2017 sono stati rimandate nei Paesi d’origine 6.340 persone, nel 2016 erano state 5.300 in linea con gli anni precedenti), anche verso quei pochi paesi con cui l’Italia ha accordi di riammissione (vedi la Nigeria).
Speriamo sia consapevole che sarà difficile stringere accordi con «tutti» i paesi di origine, come ha dichiarato, visto che la stessa Ue, nonostante l’impegno dell’agenzia Frontex degli ultimi anni, si è dovuta scontrare con una realtà più complessa di quanto previsto. E potrà notare il ministro, guardando i dati degli ultimi anni, che rispetto alle persone trattenute nei Cie ora Cpr, la media dei rimpatri effettuati rispetto alle persone trattenute continua a essere intorno al 50%, a prescindere dalla durata del trattenimento visto che tale era anche quando si poteva rimanere nei Cie addirittura 18 mesi. Allungare dagli attuali tre a sei mesi la durata massima, come prevede il decreto-legge, non porterà risultati migliori.
Preso atto di ciò, non gli sfuggirà che, dichiarando guerra, come ha fatto, alla protezione umanitaria, non farà altro che creare ulteriore irregolarità.
Il legame è evidente: privare migliaia di persone della possibilità di vedersi riconosciuta una forma di protezione di fronte a seri motivi di carattere umanitario o sociale vuol dire condannare quelle stesse persone a rimanere nel nostro paese senza nessuna possibilità di vivere e lavorare legalmente e senza che si riesca a rimpatriarle.
Al di là delle considerazioni, imprescindibili, legate all’istituto della protezione umanitaria in relazione all’art. 10 della nostra Costituzione – per cui si interviene a tutela delle tante situazioni individuali bisognose di tutela al di fuori delle definizioni più nette delle norme internazionali – dovrebbero prevalere considerazioni molto pragmatiche. Oltre alle situazioni di gravi motivi umanitari accertate finora dalla Commissioni territoriali, in alcuni casi, ad esempio, il permesso di soggiorno per motivi umanitari è stato rilasciato dal questore o concesso dai tribunali in sede di ricorso per «motivi d’integrazione» nei confronti di richiedenti asilo che, in attesa della risposta alla loro domanda, hanno trovato una propria sistemazione e datori di lavoro pronti ad assumerli: senza il permesso umanitario, che si può convertire in permesso di lavoro, è invece impossibile secondo le legge attuale assumere legalmente chi ha ricevuto un diniego.
Parliamo di migliaia di persone che non si riescono a rimpatriare e che rimangono nel nostro paese senza poter lavorare legalmente, vivere dignitosamente, anche in presenza di un’offerta da parte di un datore di lavoro.
Seguendo lo stesso ragionamento, perché il ministro si vanta di aver ottenuto negli ultimi due mesi, facendo pressioni sulle Commissioni territoriali, un numero più alto di dinieghi e sempre meno protezioni di tipo umanitario se questo risultato in pratica vuol dire un numero crescente di persone che rimarranno sul nostro territorio senza documenti, fuori dai circuiti legali, vittime di lavoro nero e sfruttamento, in condizioni di precarietà e marginalità? Che senso ha sventolare la bandiera della sicurezza se si sceglie volontariamente la strada del non governo e del disordine sociale?
Ma sono diversi i punti critici nello schema di decreto-legge annunciato: alcuni paiono mettere in discussione alcuni principi del nostro sistema democratico, a partire dal presupposto dell’uguaglianza di fronte alla legge. Se confermato, il decreto sembrerebbe essere un altro tassello del disegno più generale a cui stiamo assistendo: infiammare il clima di odio e di conflittualità sociale per veder crescere il proprio consenso.
* ricercatrice
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