Scuola, il nuovo concorso è il fallimento del renzismo
Il caso E' riservato ai docenti in possesso di abilitazione. Notizia positiva, ma non bisogna farsi ingannare: questo è lo specchio di una gestione fallimentare che ha generato la Buona scuola
Il caso E' riservato ai docenti in possesso di abilitazione. Notizia positiva, ma non bisogna farsi ingannare: questo è lo specchio di una gestione fallimentare che ha generato la Buona scuola
Ieri si sono aperti i termini di iscrizione al concorso riservato ai docenti in possesso di abilitazione: migliaia di persone vedono finalmente avvicinarsi la stabilizzazione del loro lavoro nelle scuole secondarie (cioè medie e superiori). Non ci sono sbarramenti: tutti i partecipanti, in base alla valutazione ottenuta, finiranno in graduatorie regionali dalle quali verranno chiamati, nei prossimi anni, i nuovi insegnanti di ruolo. Una buona notizia, impossibile negarlo. Di quelle che un governo può trasformare facilmente in argomento propagandistico per mostrare le proprie virtù nell’amministrare un settore, quello dell’istruzione pubblica, funestato dalla piaga del precariato. Ma non bisogna farsi ingannare: il concorso a venire è semmai lo specchio di una gestione fallimentare, quella che ha generato la Buona scuola, che ha avuto in Matteo Renzi l’ispiratore e nelle ministre Giannini e Fedeli le zelanti esecutrici.
A sostenere la prova che farà da viatico all’assunzione in ruolo saranno quelle migliaia di insegnanti che erano risultati «bocciati» al concorsone imbastito nel 2016, in pieno renzismo trionfante. Riservato già quello ai soli abilitati, con oltre 60mila posti in palio, fu una mega-macchina infernale che generò infinite polemiche sull’assurdità dei quesiti e delle modalità di svolgimento, con inevitabile sequela di contenziosi. Quello che doveva essere un monumento imperituro all’ideologia della meritocrazia si rivelò un enorme pasticcio. Ma per Renzi e il suo Pd tutto era andato bene, e le migliaia di «bocciati» erano gente che non meritava di salire in cattedra. Peccato che in cattedra ci fossero già, e che ci siano saliti nei due anni successivi, da precari. Senza di loro, il sistema non andrebbe avanti. E non si tratta di abusivi, ma di professori e professoresse con un’abilitazione, cioè un titolo acquisito dopo il superamento di un precedente concorso (nel gergo scolastico Ssis o Tfa) o di un corso abilitante dopo almeno tre anni di servizio da supplenti (Pas).
Che senso ha avuto un concorso come quello del 2016, costoso e farraginoso, se due anni dopo si fanno entrare quei «bocciati» che l’allora ministra Giannini tacciava di indegni all’insegnamento? Nessuno. Come già due anni fa sostenevano sindacati, associazioni e movimenti. Inascoltati, proponevano un piano pluriennale di stabilizzazione di tutti i docenti abilitati. Da attuarsi magari dopo un concorso non selettivo che servisse solo a determinare una graduatoria. Cioè, esattamente quello che accadrà ora.
Se avesse dato retta agli odiati corpi intermedi del mondo della scuola, a quelle forme di rappresentanza ignorate in nome della «disintermediazione», il governo del Pd avrebbe fatto risparmiare alle casse pubbliche denaro irrazionalmente speso e alle nuove leve di prof ansia, inutili fatiche e umiliazioni.
Quello che si è messo in moto ieri è forse un tardivo risarcimento, ma soprattutto è l’implicita ammissione di avere sbagliato tutto.
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