Sconnessi dallo spazio: il mio avatar sono io
Intervista Lo psicologo Giuseppe Riva sugli effetti di esperienze vissute negli ambienti artificiali digitali
Intervista Lo psicologo Giuseppe Riva sugli effetti di esperienze vissute negli ambienti artificiali digitali
La realtà virtuale inganna i nostri sensi. Ecco perché possiamo esserne sopraffatti. Il professor Giuseppe Riva, docente di Psicologia presso l’Università cattolica del Sacro cuore di Milano e autore insieme al collega Andrea Gaggioli di Realtà virtuali. Gli aspetti psicologici delle teorie simulative e il loro impatto nelle esperienze umane, pubblicato dall’editore Giunti nel 2019, spiega così l’impatto sulla nostra psiche di esperienze vissute negli ambienti artificiali digitali.
In particolare, ragionando sul caso della presunta violenza sessuale avvenuta un paio di settimane fa sul metaverso e che ha portato per la prima volta ad un’inchiesta giudiziaria aperta in Gran Bretagna, il prof. Riva commenta: «Anche se fisicamente il corpo della ragazza non è stato toccato, perché non era presente nella stanza, la sua mente e il suo vissuto psicologico hanno sicuramente sperimentato un disagio molto forte. Si potrebbe dure un trauma causato dalla doppia connessione: nella realtà virtuale sono presente in prima persona. E il mio avatar sono io. Quello che non è chiaro piuttosto è in che forma la ragazza possa essere stata stuprata», nota lo studioso «perché la maggior parte di contesti 3D non permettono azioni di questo genere. Ma forse questi ragazzi hanno hackerato il gioco».
Professore, ha senso affermare che, anche se la realtà è virtuale, gli effetti sulla mente si presentano come reali?
Partiamo col circoscrivere la definizione di realtà virtuale. Quello che la rende tale, e differente dagli altri media, è che si passa dalla visione in terza persona – tipica del video, dello schermo, dello smartphone – a quella in prima persona. Quando sono nella realtà virtuale mi trovo presente all’interno di essa come in una esperienza reale. Gli psicologici dicono: la tecnologia rende presenti all’interno di un’esperienza mediale.
Può spiegare meglio che succede a quel punto?
I creatori della realtà hanno cercato di simulare quello che accade di norma nel nostro cervello. C’è una scheda grafica che visualizza il mondo tridimensionale, un casco che viene messo davanti agli occhi con dentro sensori di posizione.
Quello che fa il computer è prevedere sulla base dei movimenti del soggetto il cambio di punto di vista dell’immagine tridimensionale. Si prova a ingannare la percezione, riproducendo il cambio di punto di vista dell’immagine tridimensionale. Si inganna la percezione perché più il modello dello sviluppatore simula la percezione umana, più il soggetto si sente presente dentro l’ambiente virtuale. E se la realtà funziona bene, il soggetto smette di essere presente all’interno dello spazio fisico in cui si trova.
Ingannare i sensi, riproducendo lo stesso meccanismo quindi. Un’esperienza immersiva.
Chi la prova la prima volta capisce che non è la stessa cosa che guardare un monitor. Poi c’è un secondo passaggio: non solo sono presente nel mondo virtuale e agisco nel mondo, ma agisco attraverso il corpo virtuale dell’avatar, non il mio. E qui gli psicologi parlano dell’«effetto Proteus».
Immagino che il riferimento sia a Proteo, la divinità greca che poteva cambiare forma.
Le esperienze che facciamo nell’avatar hanno un effetto su di noi, facendoci cambiare atteggiamenti o comportamenti.
Torniamo allora alla domanda sull’esperienza dell’avatar della ragazza che ha denunciato di essere stata violentata nella realtà virtuale.
Il senso di presenza nell’ambiente virtuale, combinato all’effetto Proteus (ovvero sentirmi l’avatar che io vedo) crea una forte connessione tra esperienza digitale e connessione della persona. Il risultato che si produce è fortemente disturbante. In altre parole, anche se fisicamente il corpo della ragazza non è stato toccato, perché non era presente nella stanza, la sua mente e il suo vissuto psicologico hanno sicuramente sperimentato un disagio molto forte.
La ragazza ha subito un trauma emotivo. E restando agli adolescenti, cosa sappiamo di quello che tale realtà immersiva provoca su di loro?
Tutto sta nella separazione o meno tra mondo virtuale e fisico. E dalla possibilità che tale contesto abbia un effetto profondo sul comportamento oppure soltanto sull’atteggiamento. Prendiamo i giochi, ad esempio GTA (uno dei videogame più giocati in assoluto insieme a quelli di Fifa), in cui il giocatore ha il ruolo di uno spacciatore che deve sopravvivere nel mondo della malavita americana. Inizialmente si pensava potesse modificare i comportamenti delle persone, ma così non è. Si è visto, invece, che nei giochi non immersivi, quando continuo a rimanere nel mio contesto e resto nel luogo fisico della mia stanza, a cambiare è solo l’atteggiamento.
Un effetto temporaneo, non permanente, a condizione che il gioco rimanga separato dal giocatore.
Se vedo molte scene di sangue in un videogame, magari mi fa perdere la rilevanza dell’azione violenta. Ma lo stesso accade anche quando osserviamo le scene cruente della guerra a Gaza. Quello che avviene invece con la realtà virtuale immersiva è molto significativo. Tant’è vero che nei videogiochi possiamo stare anche per ore, in realtà virtuale di solito si sta per tempi molto più brevi, abitualmente non più di mezz’ora.
Il moralismo sui possibili comportamenti violenti nella realtà virtuale è dietro l’angolo. Non potrebbe essere invece che, come per la creatività artistica, talvolta la violenza simulata rappresenta perfino uno sfogo, che permette poi di tornare nel mondo fisico con maggior equilibrio?
Il videogioco può essere l’occasione per provare a essere diversi da quello che si è. Un contesto in cui posso sperimentare identità alternative: posso provare a essere il cattivo come il buono. Se mi va male e mi uccidono, riprovo con un’altra partita. Questo è positivo durante l’adolescenza, periodo in cui si deve costruire l’identità. Fallire e sbagliare nei videogame è molto più tollerato che sui social, dove la violenza verbale è la prassi.
Al di là di paure e perplessità, ci sono aspetti benefici della realtà virtuale.
Lì è possibile sperimentare la dimensione empatica. È grazie al virtuale che posso entrare nei panni dell’homeless e capire più a fondo cosa vuol dire, come anche immedesimarmi in una persona anziana per imparare quello che in un’altra età non saprei. Il limite è sempre quello della confusione tra virtuale e fisico ma, ripeto, se i piani vengono tenuti separati, vedo soprattutto opportunità.
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