Scontato, atteso, puntuale, il verdetto della Corte suprema di ieri ha affondato le speranze del governo di Rishi Sunak: deportare i richiedenti asilo in Ruanda è illegale perché mette a repentaglio la loro sicurezza. La Gran Bretagna non ha il diritto di esporre i migranti al rischio di essere rispediti nei paesi da cui fuggono, hanno sentenziato compatti i cinque giudici. Lo vietano la Convenzione europea dei diritti umani, quella delle Nazioni unite, la legge britannica (con lo Human Rights Act).

Quest’anno gli sbarchi sono stati 27mila, l’anno scorso 45.755, mentre l’alloggio dei 175.000 migranti in attesa di una decisione sulla propria richiesta di asilo costa 8 milioni di sterline (circa 10 milioni di euro) al giorno. E l’accordo non ha visto ancora un decollo (aeronautico). Ben consapevole che la destra, orfana dell’appena silurata Suella Braverman, minaccia la centesima fronda, Sunak non ha scelta se non quella di tirare dritto, per quanto appaia inutile e velleitario: ha annunciato che il governo introdurrà una legislazione di emergenza pur di salvare la distopica policy, e che stipulerà un trattato con il Ruanda che tuteli espressamente i migranti dal rischio di respingimento, una pratica cui il paese est africano era già abbondantemente ricorso dopo la firma, nel 2013, di un simile accordo con Israele (lo stesso che aveva peraltro ispirato all’allora governo Johnson questa “soluzione”) e che aveva regolarmente disatteso.

Continua dunque la saga di questa non-soluzione al problema migratorio, un escamotage mediatico-“populista” ideato da Boris Johnson da dare in pasto ai media e alle frange più estremiste del suo partito, privo di sostanza giuridica ed ereditato (controvoglia?) da Sunak: l’accordo con il Ruanda consta infatti di un cosiddetto «Memorandum of understanding», ossia non vincolante, in cui il paese terzo non è tenuto altro che a dichiarare la propria buona volontà nel tutelare i migranti e impedirne il respingimento.

Sunak ha detto di non essere d’accordo con la sentenza, ma di accettarla. «Non lascerò che una corte straniera blocchi questi voli», ha detto accigliato, mettendo da parte l’affabilità tecnocratica e cercando di suonare abbastanza “ideologico” alle orecchie dei suoi critici nel partito. Del resto l’operazione ha visto 140 milioni di sterline già versati nelle casse del Ruanda, una mega-tangente ormai probabilmente già perduta: la stipula di questo fantomatico trattato extra richiederà tempo, e potrebbe portare il paese al travalicamento dalla Convenzione europea dei diritti umani, della Convenzione Onu, come vorrebbero da sempre i brexittieri più sfegatati (anche se il premier sembra restio a precipitare per quella china, come la nomina di David Cameron – un remainer della primissima ora – agli Esteri chiaramente dimostra).

La batosta arriva all’indomani dell’ennesimo rimpasto che ha visto la defenestrazione di Suella Braverman dagli Interni (rimpiazzata da James Cleverly) e la riesumazione (agli Esteri) di David Cameron, universalmente considerato da storici e opinionisti il peggior primo ministro post-1945. In una lettera schiumante e senza precedenti a Sunak, Braverman lo ha accusato di aver abusato della di lei fiducia pur di ottenere l’incarico (secondo le procedure oligarchiche con cui il partito elegge i suoi leader), evidenziando quanto scarso fosse il sostegno per la sua nomina, tra i colleghi come tra gli iscritti. Dopotutto, Sunak, quarto premier in quattro anni, eredita le sclerosi di un partito venti punti indietro al Labour che, un rimpasto dopo l’altro, rotola verso l’opposizione.