Internazionale

Schiavi come prima in Giamaica

Schiavi come prima in GiamaicaEmancipation Park, Kingston uptown – Flavio Bacchetta

Storie A 55 anni dall’indipendenza, il sistema coloniale delle caste basato sul colore della pelle costringe ancora i neri a usare creme schiarenti per trovare lavoro. Sognando un’uniforme. Unica novità del millennio l'emergere di una classe media. E con essa la figura di un nuovo "house nigger"

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 20 agosto 2017

I re africani, dal XVI al XIX secolo, furono ben felici di vendere, con la mediazione dei mercanti arabi, a portoghesi, spagnoli e in seguito inglesi, non solo i prigionieri delle tribù nemiche, ma anche loro stessi sudditi, appartenenti a caste inferiori. Gli schiavi neri, più robusti e dotati di organismi resistenti alle patologie, erano la merce ideale.

UOMINI E DONNE. In Giamaica, dopo il totale annientamento dei nativi Arawak a causa soprattutto delle epidemie di vaiolo, tubercolosi, morbillo che l’uomo bianco si portò dietro (gli indios non avevano anticorpi), furono importate le etnie che secondo i mercanti di uomini eraro fisicamente più resistenti, Mandingo e Ashanti. Gli uomini per i lavori nei campi di canna da zucchero e cacao; le donne per faccende domestiche e pratiche sessuali, anche a fine procreativo, onde ottenere discendenti con Dna modificato dal seme del master.

Lo scopo finale era creare un sistema di classi sociali basate sul colore della pelle; più chiaro, meglio è.

Non tutto andò per il verso giusto; gli schiavi fuggiaschi di origine africana, i Maroons, insediatisi nell’entroterra del Cockpit Country, ancora oggi impenetrabile, sfruttando il mimetismo sotto la guida della regina ashanti Nanny e del capo Cudjoe, impegnarono le truppe inglesi in una guerriglia che inflisse a Sua Maestà perdite enormi, fino a costringerla nel 1738 alla concessione di una forma di autonomia e di una nuova capitale, Accompong, ai ribelli. Solo che in cambio i colonizzatori chiesero e ottennero dai Maroons il loro supporto in caso d’invasioni, e soprattutto la repressione dei focolai di rivolta, che esplodevano ovunque.

Gli inglesi abolirono ufficialmente la schiavitù nel 1833 con un trattato (Slavery Abolition Act) che assicurava agli schiavisti una compensazione di 20 milioni di sterline, il 5% del Pil di allora, che corrispondono a oltre 2 miliardi di oggi.

LA LINEA DEL COLORE. Durante tutto il periodo coloniale si andò selezionando un terziario basato sulle gradazioni meno accentuate del nero della pelle. Gli impiegati presso uffici, banche e hotel sono per lo più mulatti; nel dialetto patois, sono soprannominati brownie, marroncini. Avere la pelle chiara è uno status-symbol talmente ambito che molte donne e ragazzi utilizzano micidiali creme “schiarenti” che sovente lasciano macchie permanenti sull’epidermide; quest’abitudine è conosciuta come bleaching, «candeggiare». In alternativa si può sempre sposare un bianco, straniero o appartenente all’upper class locale.

SCHIAVITÙ MENTALE. The mental slavery, come la chiamava Bob Marley in una delle sue celeberrime canzoni, inizia dall’infanzia: le bambine più nere giocano con Barbie, ovviamente quella della versione “caucasica” classica, con gli occhioni azzurri e i ciglioni biondi come i capelli. Le ragazze nella maturità sessuale cominciano a stirarsi i capelli; averli crespi è considerato poco sexy, difatti i maschi puntano subito le brownie, coetanee che hanno la pelle più chiara di loro, e la chioma liscia. I gigolò sono comunque adulati, perché vanno con le turiste bianche, muovendo il business di ristoranti e hotel.

Dopo la cosiddetta indipendenza concessa dagli inglesi il 6 agosto 1962, il sistema coloniale è rimasto integro: una classe dirigente formata da giamaicani ricchi, il 5% della popolazione, che detiene il 90% di aziende, mezzi di produzione, attività commerciali, che paga per i propri figli costose scuole e università private.

LARGO AL CETO MEDIO. La novità del nuovo millennio, consiste nella formazione di un ceto medio che negli ultimi 10 anni si è allargato e consolidato, grazie agli insediamenti esterni; i nuovi dirigenti hanno bisogno di interporre tra loro e la manovalanza un filtro/barriera che sia in grado di risparmiargli i conflitti passati; per cui ai vecchi Mr, Chin locali, si sono aggiunti manager e imprenditori stranieri, residenti in Giamaica, coadiuvati dai subalterni della classe media nativa. Mr Chin, è un nome tanto diffuso quaggiù, da diventare sinonimo di proprietario di negozi e supermercati dai tratti cinesi, però nato in Giamaica. Il suo migliore alleato, il supervisor, la cui mansione-chiave è di riferire al padrone il comportamento dei lavoranti. E controllare che non rubino. Una figura per la quale Malcolm X aveva coniato un termine azzeccato, house nigger; ai tempi della schiavitù era la spia che in ogni casa denunciava al master bianco le tresche dei servi.

All’ingresso degli hotel, in entrata e in uscita, la security tuttora usa perquisire le borse delle dipendenti, e passare il metal-detector sugli uomini.

IL SISTEMA DELLE CASTE. La Giamaica è dominata da un vero e proprio regime a caste, che detiene il controllo di finanza, scuola, polizia, sistema giudiziario e produttivo. O meglio, per dirla alla Bauman, una non-società sulla quale regna il settore privato, il cui fine unico è la vendita del prodotto; non esistono più individui, solo consumatori, nell’ambito di uno Stato che abdica dal suo ruolo storico, si defila dai suoi impegni di welfare, e svanisce dalla vita dei cittadini.

In fondo alla scala sociale, il 60% della popolazione, utilizzata per lavori di fatica, e per fornire personale a supermercati, alberghi, banche e uffici; tutti inquadrati nelle loro uniformi inamidate e sgargianti, con orari che sovente sforano i limiti prestabiliti, senza sindacati rompiscatole che chiedano aumenti salariali, la cui media corrisponde a circa 50 euro settimanali.

Quando le housekeepers (colf) scioperarono per ottenere un adeguamento al salario minimo, dovettero cedere per fame, ignorate da unions, governo e datori di lavoro.

UNIFORME CHE PASSIONE. L’uniforme denota il senso d’appartenenza a un’azienda privata, un’istituzione statale, o più semplicemente un corso scolastico; come dire: «Io l’indosso, per cui faccio parte di un ingranaggio del sistema, quindi esisto».

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento