Una storia vera ma che torna ad affacciarsi alla memoria collettiva grazie ad un romanzo. La vicenda che racconta Sasha Naspini in Ville del seminario (e/o, pp. 204, euro 17,50) si ispira a quanto accadde nel paesino maremmano di Roccatederighi tra il 1943 e il 1944: la residenza estiva del vescovo affittata a un gerarca repubblichino perché vi possa realizzare un campo di concentramento destinato a raccogliere un centinaio di ebrei italiani e stranieri, la maggior parte in seguito deportati alla volta dei lager, soprattutto Auschwitz.

Naspini, grossetano, classe 1976, già autore di una decina di romanzi tradotti a livello internazionale, alcuni dei quali ruotano intorno a questo medesimo territorio e alla sua storia, sceglie di far luce su quanto accadde allora attraverso la figura di René. Si tratta di un ciabattino cinquantenne, mutilato da un incidente sul lavoro che arriverà a prendere parte, per la prima nella sua vita, a quanto accade intorno a lui guidato prima di tutto dall’amore per Anna, una vicina di casa che ha perso un figlio partigiano ucciso dai fascisti. Autentico eroe suo malgrado, è attraverso gli occhi di René e le domande che l’uomo comincia a porsi di fronte a ciò che sta accadendo nel paese di Le Case, che i lettori finiscono per condividere non soltanto le sue giornate nutrite di solitudine ma quella rabbia sorda che va montando in lui, quel desiderio di mutare l’esito terribile di quanto avviene nel silenzio e, si direbbe, il consenso passivo dei più.

Costruito attraverso una lingua sognante che impasta emozioni e sentimenti accanto ai riflessi gergali del territorio, come è nello stile di Naspini fino a definirne una delle preminenti caratteristiche narrative, Villa del seminario è un romanzo potente e indimenticabile che attraverso una piccola storia indaga una delle pagine più tragiche del ’900, le molte complicità che resero possibili quei fatti e le tante domande rimaste senza risposta fino ad oggi.

Lo scrittore Sasha Naspini

La vicenda narrata nel romanzo si ispira ad una storia vera, ma di cui è rimasta una debole traccia nella memoria collettiva. Come andarono le cose all’epoca e come ne è venuto a conoscenza lei?
Un primato di cui la Maremma avrebbe di certo fatto a meno: un regolare contratto d’affitto stipulato tra un gerarca fascista (Alceo Ercolani, Capo della Provincia – responsabile, tra le altre cose, della fucilazione degli undici ragazzi di Istia nel marzo del 1944) e la diocesi di Grosseto. Scopo dell’affitto: trasformare la residenza estiva del vescovo in un campo di concentramento. C’è addirittura un passaggio di quel contratto che recita così: «Dietro invito motivato dalle emergenze di guerra e in prova di speciale omaggio presso il nuovo Governo, la Curia cede in affitto il Seminario estivo presso Roccatederighi per farvi la sede del campo di concentramento ebraico a un canone di locazione mensile di 5000 lire». Il prelato invia anche cinque suore e due uomini di fatica, rispettivamente per uno stipendio di trecento e seicento lire. Un gesto caritatevole, si dice nel documento. La vicenda è arrivata a me da un posto semplice: le mura di casa. Vengo da quel luogo. Ma nessuno ne voleva parlare – in pochi ne parlano ancora oggi (ho conosciuto persone di 65 anni nate lì che non ne sapevano niente). C’era questa leggenda del seminario, in cui erano accadute «certe cose»… Impossibile proseguire oltre. Alla fine sono andato a cercare questa storia. Ne la Villa del seminario c’è forse un tentativo: cosa succede in un piccolo borgo di provincia lontano da tutto se d’un tratto piazzano un campo di concentramento accanto a casa tua? In quella dimensione, tra l’altro: restrizioni, guerra, fame, l’inverno feroce del ’43, le bande partigiane organizzate, i tedeschi della Wehrmacht…

Ha scelto di far luce su questa storia non a partire dal ritratto delle persone che furono internate e poi deportate verso i campi della morte, ma attraverso la figura di René, un ciabattino cinquantenne di cui seguiamo la progressiva presa di coscienza, fino a un impegno nella Resistenza. Cosa rappresenta questo personaggio?
René è uno che è sempre stato a guardare. Lì, rinchiuso nel suo ruolo di ciabattino di paese menomato (ha perso tre dita al tornio in giovane età), con un amore mai detto. Casa e bottega. Valanghe di solitudine. Ha sempre rigato dritto, mai un colpo di testa. Mi piaceva l’idea della Storia che ti travolge; che ti mette al muro. Non puoi più stare lì impalato. René di colpo è costretto ad aprire uno sguardo nuovo sul mondo. E su se stesso.

René è un eroe suo malgrado, che arriva a prendere parte a quanto accade intorno a lui guidato prima di tutto dall’amore per Anna, una vicina di casa. Il suo percorso evoca la possibilità di una riscossa morale di fronte alla barbarie resa possibile anche dall’indifferenza di molti. Una sfida anche indirizzata al presente?
Lo spero. Nella nota finale del libro cerco di fornire qualche strumento su come leggere l’avventura di questo ciabattino, ma in sostanza (banalizzo): finché qualcosa non ti tocca seriamente, non esiste, la lasci passare. L’elettroshock di essere parte vitale del discorso comune è una faccenda che impatta su René, ma potremmo traslare certe dinamiche che lo riguardano su molti temi dei giorni nostri. Nel romanzo, Anna perde il figlio Edoardo, fucilato dai fascisti. È distrutta dal dolore. Alla fine decide di continuare ciò che suo figlio aveva cominciato: va con la Resistenza. Ma lascia a René un compito… Lui non può più sottrarsi. Si ritrova scaraventato fuori dalla sua vita. Viene addirittura «ribattezzato».

Al pari di altri suoi romanzi, anche in «Villa del seminario» la lingua ha il potere di evocare un intero mondo di sentimenti e emozioni. In questo caso che peso ha nell’accompagnare la storia?
Villa del seminario è sulla «scia» di storie territoriali che mi riguardano; una vena che c’è, un posto delle emozioni, un immaginario, un giro dei pensieri – ha una semantica tutta sua. Dare voce a questi racconti è sempre bello, e in parte nuovo. Qui siamo nella terza persona da «C’era una volta», eppure qualcosa si muove, recrimina un ceppo. Comando e sono comandato. Insomma, quel suono di fondo che forse si sente: è quello l’epicentro del romanzo, con il suo portato silenzioso. Avere una storia da raccontare è sempre un buon momento. A quel punto si deve pensare a come raccontarla. Cercando di cogliere queste occasioni, si attiva un gioco per me affascinante: il piccolo che prova a dire il grande. Le dinamiche umane, che schiacciate in un borgo di neanche mille anime mostrano sprofondi o tagli di luce improvvisi.

Un «muro della vergogna» celava l’interno del seminario alla vista della popolazione o, all’inverso, nascondeva il mondo agli internati. Il lettore si interroga così su un tema che ricorre sempre in relazione alla Shoah, vale a dire cosa sapevano, ad esempio in questo caso le persone del paesino che sorge vicino a quel luogo.
Penso sia fuori discussione che l’ortolana all’angolo di un piccolo borgo di quel periodo avesse una vaga idea di cosa accadeva in Polonia. Mi basta questo: vedevano intere famiglie prese e depredate di tutto, beni mobili e immobili, e rinchiuse. Per poi partire per chissà dove. Molti si sono dati da fare – i più hanno chiuso un occhio; l’altro sulle contingenze: mangiare, stare al caldo… Il mio bisnonno, per esempio, è morto di deperimento organico nel dicembre del ’43, lì, a Roccatederighi. Aveva 62 anni. Tutti erano sotto scacco, in un modo e nell’altro. Tutti precipitavano nell’agonia e nella violenza. Poi, cosa sapesse di Bergen-Belsen il vescovo Paolo Galeazzi, è un mistero. La sua figura è liquida: ha firmato il contratto obtorto collo o per volontà? I prigionieri da lui liberati sono stati un «attestato di merito» da mostrare all’ultimo minuto agli Alleati? So che prima di tutta questa vicenda faceva lunghe passeggiate a braccetto con Mussolini al tempo delle bonifiche… Fatta la Liberazione, ha chiesto allo Stato il rimborso degli affitti non pervenuti dall’Ercolani. E ha continuato a istituire parrocchie. Lo scorso febbraio il sindaco di Grosseto gli ha dedicato una nuova piazza. Amen.

Solo nel 2008 fu posta una targa commemorativa nel giardino del seminario e i responsabili di quella tragedia restano nell’ombra. Ricordare tali vicende alla vigilia del 27 gennaio in un Paese guidato da una destra proveniente dalla storia del neofascismo rappresenta ancora una sfida?
Alceo Ercolani fu condannato a trent’anni per i fatti di Istia. Ne scontò sette, per poi veleggiare tranquillo verso la fine dei suoi giorni. A quanto ne so, nemmeno un capo d’imputazione riguardante gli ordini di trasferimento per le famiglie da Roccatederighi a Fossoli (destinazione Auschwitz). Il giorno istituito a livello mondiale è un monito: che l’uomo non commetta più atrocità del genere. Poi guardi nel piccolo, e vedi pozzi di silenzio. È contro quello la vera sfida. Chiudo con un piccolo rammarico che resta in tema: mi sarebbe piaciuto fare la prima presentazione di questo libro proprio nella villa del vescovo, il 27 gennaio. Avevo pensato a un pomeriggio con storici, musicisti, attori e altre personalità ben più autorevoli di me. Purtroppo non è stato possibile. Gli interlocutori con cui ho avuto a che fare hanno risposto alla mia proposta così, testuali parole: «Molto interessante, ma preferiamo non avere frizioni con la Chiesa…». Allora nel Giorno della Memoria andrò a dirlo altrove.
L’autore sarà impegnato in una serie di presentazioni di «Villa del seminario», tra le prossime date: il 25 gennaio al Polo del ’900 di Torino, il 28 alla Biblioteca della Ghisa di Follonica, il 29 al Centro civico di Roccatederighi, il 30 alla Libreria Feltrinelli di Firenze.