L’avvento al potere di Hitler in Germania suscitò subito forti preoccupazioni in Inghilterra: prova dell’inquietudine diffusa è, fra altri titoli, il pamphlet Le tre ghinee, in cui Virginia Woolf rimbecca l’anziano e autorevole H.G. Wells, il quale accusa le associazioni femminili inglesi di non essersi mobilitate a sufficienza contro la visione maschilista del nazismo.

Già nella seconda metà degli anni Trenta, del resto, una serie di romanzi distopici scritti da donne – il più interessante dei quali è La notte della svastica di Katharine Burdekin – prefigurano una futura dominazione nazista sul suolo patrio. Nel dopoguerra, un’altra ondata di romanzieri, forniti di una conoscenza ormai completa della parabola del terzo Reich, riprendono gli stessi motivi distopici: per rimanere all’Inghilterra, Fatherland di Robert Harris prende spunto dal ritrovamento, in una Berlino nazista del futuro, dei verbali della famigerata conferenza segreta di Wannsee (20 gennaio 1942), in cui i gerarchi nazisti avevano pianificato la ‘soluzione finale’.

Un efficace contributo a questo tipo di narrazioni è fornito nel 1952 dalla distopia Il richiamo del corno (traduzione di Roberto Colajanni, pp. 191, euro 18,00, già pubblicata nel 2015) a nome di Sarban, lo pseudonimo del diplomatico inglese John William Wall, attivo soprattutto nelle captali del Medio Oriente e scrittore quasi a tempo perso. Come si apprende in questa riedizione dalla nota di Matteo Codignola, Sarban in farsi significa «carovaniere» e Il richiamo del corno, trascurato da critici e lettori in Inghilterra, avrebbe poi conosciuto un notevole successo negli Stati Uniti, uscendo nel 1960, presso la casa editrice Ballantine, forse la più attenta a valorizzare i generi della cultura di massa.

In effetti, la distopia di Sarban ha il pregio di mescolare numerosi spunti presi dalla narrativa che procede per formule cui aggiunge una dimensione immaginaria storico-politica, dal momento che l’azione del romanzo si svolge in un futuro in cui il Terzo Reich ha vinto la seconda guerra mondiale.

Nella sua apparente semplicità, la trama è incalzante e angosciosa, e il paesaggio narrativo è occupato soprattutto da una gigantesca foresta, luogo di orrori innominabili, ma anche, paradossalmente, garanzia che la natura può sopravvivere alla violenza umana. Ai confini dell’impero nazista, è in atto una «caccia alla donna» descritta con risvolti sadici e misogini, talvolta sgradevoli.

Sull’intero paesaggio incombe la figura cinquecentesca – assieme storica e mitica – del feroce conte Johann von Hackelnberg, che, accompagnato da un gerarca nazista dall’aspetto bestiale, incita alla caccia infernale con il suono del suo corno.

L’intuizione narrativa più abile di Sarban risiede nel descrivere l’avvento del nazismo come vettore al tempo stesso di una società tecnologicamente avanzata e del ritorno del passato più barbarico e disumano. Se ne rende conto il narratore, un giovane militare inglese prigioniero nel 1943 in Germania, che riferisce lucidamente la sua storia a un amico, come fosse un’allucinazione da cui si è appena svegliato. D

a una parte viene a contatto con una civiltà che sembra possedere il segreto del viaggio nel tempo, è capace di costruire vestiti e altri oggetti di raffinata fattura, manipola geneticamente gli esseri umani, per trasformarli in schiavi talvolta docili, talvolta crudeli; dall’altra parte c’è la violenza sadica del Conte e dei suoi sgherri, e il divertimento macabro dei torturatori sicuri di rimanere impuniti.

Il romanzo di Sarban si inscrive in una corrente narrativa inglese che, negli anni Cinquanta del secolo scorso, si oppose sia alla sperimentazione modernista ormai al tramonto, sia ai nuovi interessi per il realismo sociale degli angry young men. Erano usciti in quel decennio il William Golding del Signore delle mosche, la trilogia di Gormenghast di Mervyn Peake, ancora troppo poco apprezzato in Italia, e di J.R.R. Tolkien il ciclo del Signore degli anelli.