Visioni

Sarajevo, l’energia delle immagini come antidoto contro la guerra

Sarajevo, l’energia delle immagini come antidoto contro la guerraIl Cinema Apollo durante l'assedio – foto di Milomir Kovacevic Strašni

Cinema Il festival si ferma per un giorno per alzare la voce contro i femminicidi, violenze di un passato presente. La mostra sul Cinema Apollo durante l’assedio, polemica sul film pro cetnici

Pubblicato circa un anno faEdizione del 17 agosto 2023

«Tutte le attività sono sospese». Una mail ha avvisato ieri gli ospiti che il Sarajevo Film Festival avrebbe fermato la programmazione – e non solo il Red carpet e gli eventi sociali – per aderire alla giornata di lutto nazionale contro i femminicidi proclamata per la morte di una donna uccisa dall’ex-marito a Gradacac, nel nord-est della Bosnia, con altre due persone – tre sono invece rimaste ferite. «Osserviamo la Giornata di lutto per mandare un messaggio di solidarietà a ogni vittima di violenza contro le donne» si legge nella dichiarazione del festival che ha proposto in alternativa ai film una tavola rotonda sulla rappresentazione del femminicidio nei media, cinema e televisione, con interventi di registe, registi, attrici tra cui la cineasta di Sarajevo Aida Begic – Buon anno Sarajevo, I ponti di Sarajevo – e quella croata autrice Vanja Juranic di When I Only Laugh, una storia di patriarcato e ribellione femminile.

PARLARE di violenza contro le donne risponde però anche al bisogno di dare voce alla memoria della guerra in Bosnia-Erzegovina negli anni Novanta del secolo scorso in cui stupri e schiavitù sessuale sono stati una pratica esercitata con spietatezza dagli eserciti serbi durante l’occupazione seguendo il programma di «pulizia etnica» contro i bosniaci. Di questo parla Silence of Reason di Kumjana Novakova che a partire dalle testimonianze tutte anonime di donne sopravvissute ai campi di prigionia di Foca, una cittadina sul confine con la Serbia, costruisce una narrazione senza volti, affidata solo alle parole di atrocità subite e rimaste a lungo in silenzio. Quando all’improvviso i serbi armati catturano gli abitanti dei villaggi – «tra loro avevo riconosciuto il mio vicino di casa con cui eravamo cresciuti insieme» si dice – molte donne vengono portate in palestre o centri ricreativi trasformati in campi di prigionia, stuprate serialmente,

«When I Only Laugh» di V. Juranic

anche se hanno quindici o sedici anni – una ne aveva dodici e non è mai più tornata – torturate, utilizzate per divertire i soldati. Nessuna accenna ai bambini nati dagli stupri, un altro argomento molto delicato, qualcuna li rifiuta, altre li hanno tenuti, abortire non era possibile, la prigionia serviva anche a questo. «La presa di parola che è arrivata tempo dopo e per molte ancora a fatica, è servita a far riconoscere lo stupro e la schiavitù sessuale come crimini di guerra» ha spiegato Novakova, anche attivista e responsabile del festival dei diritti umani in città.
La guerra anche per l’anniversario dei trent’anni ritorna in moltissime opere presenti al festival, come Sirin di Senad Šahmanovic, ancora un racconto al femminile, l’esperienza della giovane protagonista di famiglia musulmana cresciuta in Europa che visita il villaggio di infanzia sentendosi estranea.

L’ATMOSFERA in città, forse complici l’estate, le vacanze, i moltissimi turisti (qui i prezzi per l’euro sono ancora economici) è quasi frenetica: strade piene di gente, su cui a ore fisse si alza il canto del muezzin, una notte vivacissima, decine e decine di locali anche nella Città vecchia con l’impronta musulmana più esplicita – quasi tutti i ristoranti non vendono alcol. Dove sono allora i segni della guerra fuori dagli schermi? Nei luoghi, sulle facciate dei palazzi almeno quelli non ripuliti, che hanno ancora i buchi delle pallottole sparate dagli eserciti serbi dall’alto delle colline durante l’assedio della città, adesso vi si sale per cercare un ristorante o un caffè con vista, guardare Sarajevo dall’alto e respirare il vento fresco. L’esercito serbo si era schierato lì già prima del 5 aprile del 1992 quando poco dopo il referendum che decretava l’indipendenza della Bosnia-Erzegovina intrappolò la città in un lungo assedio. Bisogna farci caso, si deve sapere, sono più evidenti nei quartieri periferici, lontani dal turismo come è evidente una certa povertà mascherata altrove dai palazzi ultra moderni di banche, multinazionali, dai centri commerciali e quant’altro ha partecipato alla ricostruzione e al dopo, a cominciare dai capitali arabi in continua espansione che hanno portato in città il wahhabismo più esibito – le donne con il niqab, mogli o sorelle chissà dietro a un uomo-marito, impossibile scorgere le loro espressioni, si colgono solo i dettagli di lusso, di capitali importanti.

«Sirin» di S. Šahmanovic

E i giovani cosa sanno della guerra? Difficile dirlo, le sale però sono piene di giovanissimi attenti e con continue domande. Dunque quel conflitto è già memoria o i suoi traumi restano aperti da qualche parte? Alla magnifica mostra First War Cinema Apollo, con le fotografie di Milomir Kovacevic che documentano la storia dell’Obala Art Center al Cinema Apollo, una signora piangeva. Sono allora nei cuori quei segni? Non solo. Che le tensioni politiche siano ancora ben vive lo ha dimostrato la polemica esplosa ieri intorno alla proiezione al Cinelink – la parte del festival dedicata all’Industry con la presentazione di film ancora work in progress – di Heroji Halyard del regista serbo Rados Bajic. La stampa bosniaca ha accusato il festival di «esaltare i cetnici» e il loro leader, Draza Mihajlovic, che nel 1946 venne arrestato, processato e giustiziato come traditore dalle autorità socialiste della Jugoslavia – i cetnici avevano collaborato coi nazisti, nel film sembra che siano mostrati come alleati degli americani. I gruppi paramilitari serbi che durante la guerra di Bosnia si rifacevano a questo movimento solo nella zona di Visegrád hanno ucciso almeno tremila musulmani e commesso stupri di massa. La sindaca di Sarajevo Benjamina Karic ha chiesto l’immediato licenziamento del responsabile di questa programmazione affermando che il comune potrebbe interrompere la collaborazione col festival. Una leggerezza, una distrazione – di cui gli organizzatori si sono assunti la responsabilità?

Il festival peraltro nasce proprio nei giorni dell’assedio come dicono appunto le fotografie di Kovacevic, col lavoro di un gruppo di studenti dell’Accademia di Performing Art. L’edificio che ne è ancora la sede è sulla Obala Kulina, una strada di scorrimento lungo il fiume. È piccolo, quasi nascosto, la facciata è stinta. È lì che nel 1992 questi ragazze e ragazzi hanno iniziato la propria resistenza al conflitto, all’assedio, alla violenza, alle pallottole degli sniper, alla vita al buio e al freddo senza elettricità né cibo – far arrivare le cose in città era quasi impossibile – usando l’immaginario.

Mentre ci chiedevamo come sopravvivere abbiamo capito che l’essere umano ha bisogno non solo di cibo ma anche di cultura, di arte, di altre coseMirsad Purivatra
TRA LORO c’era anche Mirsad Purivatra che sarà tra i fondatori e a lungo direttore del Festival di Sarajevo, e che in una intervista nei giorni scorsi a «Variety» ha detto: «Mentre sotto le bombe ci chiedevamo come riuscire a sopravvivere abbiamo capito che l’essere umano ha bisogno non solo di cibo ma anche di cultura, di arte, di altre cose». Così iniziano le mostre, le perfomance, arrivano artisti come Christian Boltanski e Annie Leibovitz sfidando la guerra e l’assedio per dare il loro sostegno. Le fotografie narrano, catturano quei momenti, ne rendono l’energia, il senso di rivolta. Il festival col nome First War Cinema Apollo – fra i suoi attivissimi sostenitori con film e artisti c’era anche Marco Müller allora direttore del festival di Locarno – parte grazie a un generatore portato dall’Onu e a delle videocassette che erano nella biblioteca dell’accademia. Si entrava da un buco nel muro, scendendo nella cantina dove molti dei ragazzi vivevano. Il pubblico è tantissimo e diverso, si proiettano Ladybird Ladybird, Lynch, Jarmusch. Ogni fotografia è un frammento di storia, la più emozionante è quella che li ritrae tutti insieme, sorridenti, vitalissimi. Alcuni lavorano ancora al festival, altri chissà. Ma raccontare questa esperienza di lotta senza retorica, nella potenza di una vita al lavoro vale più di molto altro nel presente e per il futuro.

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