Europa

Sarà Labour, ma non è un paese per Corbyn

Il leader dei laburisti Starmer parla ai suoi sostenitoriIl leader dei laburisti Starmer parla ai suoi sostenitori – AP Photo/Kin Cheung

Elezioni Uk Si vota in Gran Bretagna, i laburisti «pragmatici» di Keir Starmer stravinceranno e riformeranno. Il suicidio politico dei Tory regalerà grandi numeri alla sinistra. Ma i loro piani fanno paura. Non c’è niente da stare allegri

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 4 luglio 2024

In Gran Bretagna sono tutti d’accordo: a vincere le elezioni di oggi sarà certamente il Labour Party. La vera incognita è quanti voti riuscirà a prendere il Reform Uk, cioè il partito di estrema destra. Quello, se vogliamo, con un potenziale destabilizzatore.

Oggi si vota nel Regno Unito. E in queste ore, a meno che ci si trovi di fronte alla più fantasmagorica cantonata mai infilata della sondaggistica dopo quella delle elezioni presidenziali americane del 1824, sta materializzandosi la tardiva fine di un quindicennio scarso di assoluto dominio della politica nazionale da parte del partito conservatore. Più per demerito altrui, l’autocannibalismo Tory, che per meriti propri il Labour di Keir Starmer è sull’orlo di una vittoria di magnitudo inusitata. Grazie al medievale sistema elettorale di questo paese – l’unico in occidente dove l’aggettivo medievale trovi ancora un uso vergognosamente frequente – da domani i laburisti potrebbero avere carta bianca per riformare in profondità il paese. Lo faranno? La domanda è senz’altro retorica, ma la risposta incerta.

STARMER FINORA ha brillato per opacità: umana – dopo i giullari alla Johnson quasi un punto di forza – ma soprattutto politica. E opaco, il programma – «manifesto» – del suo partito lo è altrettanto. Manca di qualsiasi guizzo, affermazione, proposito in reale controtendenza con lo status quo. La soft left residua dentro al partito ritiene sia per non spaventare l’elettorato, così poi da poter iniziare un lavoro di riforma degno di questo nome. Più probabilmente è una pia illusione, laddove di illusioni il Labour starmeriano sembra proprio non averne: come si ripete ad nauseam è «pragmatico». Ergo, l’attuale programma elettorale sta a quelli precedenti del Labour social-corbyniano del 2017 e 2019, irti com’erano di nazionalizzazioni e spesa pubblica, come il diavolo e l’acqua santa. Solo una cosa è sicura: la parola change figura 191 volte.

Il contesto economico del paese è caratterizzato da elevata spesa pubblica, pressione fiscale record e servizi pubblici sotto pressione. Il contendere finora si è imperniato su tasse e spesa. La crescita – con la quale Starmer vuole finanziare le presunte migliorie sociali – rimane a-nemica. I soldi dovrebbero naturalmente venire dalle tasse alle imprese, sul cui innalzamento il partito nicchia per ragioni fin troppo ovvie, salvo l’abolizione del favoritismo fiscale ai contribuenti non residenti e una tassazione delle multinazionali energetiche.

LA DISCIPLINA FISCALE regna sovrana, anche per il rinnovato mercimonio con le grandi aziende. Il paese è reduce da un quindicennio di austerity che lo ha socialmente spezzato. Sanità, alloggi, ambiente, inflazione sono solo la punta dell’iceberg. Ma Sir Keir più di tanto l’austerità non la scalfisce, sebbene il documento programmatico ne prometta il mancato ritorno. L’aumento in spesa pubblica necessario per riportare a galla i servizi sociali annega nei venti miliardi di tagli annuali promessi nella prossima legislatura, in linea con la macelleria sociale inflitta al paese dal duo Osborne-Cameron negli anni Dieci, andando a ricadere direttamente su di essa. Si investe perlomeno nella transAzione verde – eolico, elettrico, fotovoltaico – e l’impegno di net zero, ovvero la riduzione a zero dell’elettricità «termica» entro il 2030, rimane (i Tories, feticisti del fossile, stanno facendo retromarcia alla grande).

NEL COMPLESSO la mancanza di fegato fiscale – tassare a sangue i ricchi – è sostituita dalla solita panzana della crescita, dalla quale estrarre i soldi necessari ai servizi sociali agonizzanti: avete presente il barone di Münchhausen, che esce incolume dalle sabbie mobili tirandosi fuori per i propri capelli?

Si è citato sopra Corbyn: una piccola postilla su questa figura nobile della sinistra inglese, leader del partito dal 2015 al 2020. Stalinianamente purgato dal mite Keir, l’old (75enne) Jeremy si presenta da indipendente nella «sua» Islington North, che rappresenta da quarant’anni e lo ama alla follia. Il partito gli ha opposto il tecnocratico, meritocratico, mediacratico parvenu Praful Nargund, un giovane prenditore che ha a disposizione tutto il volume di fuoco della casa madre e, complice anche il fatto che in molti credono Corbyn ancora laburista, è dato per favorito.

NON FOSSE CHE l’ultimo sondaggio dà Nargund al 43% contro il 38% di Corbyn. Come già Ken Livingstone e altri prima di lui ci uniremmo tutti nella goduria di veder infliggere alla macchina burocratica normalizzatrice del partito la pernacchia che merita.

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