«Pedro quédate», fermati, non te ne andare, scandisce la vicesegretaria del Psoe e prima vicepresidente del governo spagnolo María Jesús Montero, che domani potrebbe essere indicata da Sánchez a sostituirlo nella guida dell’esecutivo, in quest’ultimo sabato d’aprile, concludendo i lavori del Comitato Federale del partito, per la prima volta senza la presenza del segretario generale e, come non accade mai, aperto ai media.

Fuori della sede del Partito socialista a Madrid, in Calle Ferraz, rilanciano l’appello gli oltre 10.000 militanti giunti da tutto il paese a sostenere il loro segretario e presidente del governo spagnolo. Da mercoledì pomeriggio, da quando Pedro Sánchez ha comunicato con una lettera alla cittadinanza di voler fermarsi a riflettere se continuare o meno alla guida del governo, il partito socialista è in subbuglio: inizialmente annichilito dall’annuncio giunto del tutto inatteso, ha poi reagito lanciando una campagna dai toni quasi messianici di solidarietà e sostegno al suo leader, nel tentativo di convincerlo che «Claro che vale la pena».

NESSUNO SA DIRE ancora cosa succederà domani, quando Sánchez parlerà al paese per comunicare la sua decisione: se rimarrà sottoponendosi a una mozione di fiducia parlamentare, o darà le dimissioni indicando una persona a succedergli a capo del governo, o addirittura convocando nuove elezioni politiche. Se deciderà di rimanere, dovrà spiegare molto bene cosa è intervenuto in questi cinque giorni a liberarlo dal dubbio, oltre il fatto che l’indagine giudiziaria a carico della moglie per traffico di influenze ha già dimostrato di essere priva di qualunque fondamento.

Tra l’altro, non è in crisi la sua maggioranza parlamentare, che gli ha più o meno riconfermato il suo sostegno. Se invece dovesse dimettersi, si tratterebbe di salvaguardare al meglio la continuità delle politiche progressiste del governo di coalizione. E quantunque sia legittimo chiedersi quanto vi è di politico e quanto di personale nel suo gesto, tutta la vicenda sta almeno avendo il pregio di far discutere sullo stato della politica, la sua disumanizzazione e sul diritto delle persone che la fanno a non essere oggetto di diffamazione e vilipendio. E di ribellarsi, come ha fatto Jacinda Arden, lo scorso anno, dimettendosi da prima ministra della Nuova Zelanda. Quella violenza che molti considerano connaturata all’attività politica – secondo cui si dovrebbe uscire da casa “già pianti” – e che il femminismo ha invece da tempo segnalato come cattiva pratica.

LA SPAGNA NON È CERTO la Colombia di Iván Duque o il Brasile di Bolsonaro dove gli oppositori politici rischiavano la vita. Ma ci sono dei tratti comuni nell’agire delle destre e delle estreme destre mondiali nei confronti degli avversari politici, nell’utilizzare falsi dossier, macchina del fango e persecuzione giudiziaria. Non per caso, Lula da Silva è stato uno dei leader stranieri a telefonare in queste ore a Sánchez per manifestargli la sua solidarietà.

IN SPAGNA, LA MACCHINA del fango era già in funzione da tempo, prima di questo attacco diretto contro Sánchez e il suo partito. Si è mossa contro Podemos, soprattutto nei confronti di Pablo Iglesias e Irene Montero; ha agito contro gli indipendentisti catalani in un’azione di spionaggio e nella costruzione di teoremi su violenza e terrorismo mai esistiti. L’ingerenza della giustizia nella politica è lo strumento più utilizzato dalle destre per liberarsi dall’avversario politico che non si è riusciti a battere nelle urne. Perciò il Partido Popular, che non ha mai riconosciuto la legittimità dei governi a guida Sánchez, si rifiuta di rinnovare i vertici del sistema giudiziario spagnolo che rispondono a una logica reazionaria.

È possibile che Sánchez in questi giorni si sia specchiato in António Costa, l’ex presidente socialista del governo portoghese. Costretto a dimettersi per un presunto caso di corruzione rivelatosi poi inesistente, Costa è risultato vittima di un evidente caso di lawfare e nelle recenti elezioni, il suo partito ha perso di misura, consegnando il paese ai conservatori.

SÁNCHEZ, PERÒ, è anche l’ultimo leader di un grande partito socialista rimasto in Europa a guidare il governo di uno Stato membro e a rappresentare la socialdemocrazia. Si è guadagnato la stima e il riconoscimento internazionali. La Spagna capeggia la ripresa economica europea, è un punto di riferimento in Europa nelle politiche di transizione ecologica, nella costruzione di diritti sociali e di cittadinanza. E fin dal principio del conflitto mediorientale ha proposto il cessate il fuoco e il riconoscimento dello Stato palestinese. Le prossime elezioni europee saranno cruciali per il destino del continente. E il futuro di Pedro Sánchez passa anche da qui.