San Quintino, si cambia
Stati Uniti La California trasforma il suo incubo securitario in una prigione riabilitativa «modello norvegese». Da qui sono passati Charles Manson, Eldrige Cleaver e tutto l’immaginario del "carcere duro"
Stati Uniti La California trasforma il suo incubo securitario in una prigione riabilitativa «modello norvegese». Da qui sono passati Charles Manson, Eldrige Cleaver e tutto l’immaginario del "carcere duro"
Johnny Cash suonò due volte per i detenuti di San Quentin, nel 1958 e poi nuovamente nel 1969. Quest’ultimo concerto venne registrato dal vivo per Johnny Cash at San Quentin. Sulla playlist del disco c’erano cavalli di battaglia come A boy named Sue e Walk the Line ma la canzone accolta da un vero boato dai detenuti, guardati a vista quel giorno dai secondini armati, fu sicuramente la ballata che augurava all’odiata istituzione una pronta e focosa fine.
LA PIÙ ANTICA prigione californiana è aperta dal 1852, due anni appena dopo la stessa fondazione dello stato ai tempi della febbre dell’oro. Edificata su un promontorio che sporge nella baia di San Francisco dalla costa di Marin County, appena passato il Richmond Bridge, il penitenziario ospita oltre 3000 detenuti, compresi quasi 700 nel famigerato braccio della morte. Tecnicamente la pena di morte in California è ancora in vigore ma da 17 anni di fatto non sono state eseguite condanne, e nel 2019 il governatore Gavin Newsom ha reso ufficiale una moratoria sine die su nuove esecuzioni.
Il vecchio carcere (“possa bruciare all’inferno” canta Cash fra gli ululati dei prigionieri) è la più antica istituzione pubblica in California e – come per altre “mitiche” prigioni americane (Sing Sing, Attica, Leavenworth, Pelican Bay, Angola, Guantanamo…) – fa parte della mitologia penale del paese che ospita un quarto di tutti i carcerati del pianeta. L’elenco di quelli passati da San Quentin testimonia la criminalità di un paese violento e ne rispecchia la storia di tensioni sociali. Qui hanno scontato pene Charles Manson, Eldridge Cleaver delle Pantere Nere e Sirhan Sirhan, condannato per l’assassinio di Robert Kennedy. Dietro le mura di pietra grigia sono passati l’attore “tarantiniano” Danny Trejo e “l’outlaw” country Merle Haggard. E negli anni qui sono state messe a morte centinaia di persone. Quando si attivava la famigerata camera a gas (e successivamente le flebo di veleno), lo spiazzo fuori dai cancelli era luogo di protesta e di veglie – ricordo in particolare quella nel 2005 per Stanley “Tookie” Williams, membro fondatore dei Crips diventato autore di libri, per la cui grazia si batté all’epoca un ampio movimento – invano, il governatore Schwarzenegger si rifiutò di fermare il boia.
CI SONO STATE poi le rappresentazioni in cinema e letteratura, a cominciare dal Vagabondo delle stelle, il romanzo che vi ambientò Jack London nel 1915. Numerosi poi le raffigurazioni hollywoodiane, ne La fuga (1947), Humphrey Bogart evade dopo essere stato ingiustamente condannato. Lo raccoglie per strada Lauren Bacall che lo nasconde e lo aiuta a cambiare volto con una plastica facciale per cercare di scagionarlo. La lista passa da Prendi i soldi e scappa di Woody Allen (1968) e arriva a Fruitvale Station (2013), il fulminante esordio di Ryan Coogler.
PESA MOLTO sull’immaginario collettivo, insomma, come simbolo di carcere duro, questo luogo mesto, pieno di fantasmi, come la cattiva coscienza di un paese con oltre 2 milioni di persone dietro le sbarre. E quello che con buona ragione è stato definito un complesso penale-industriale, un gulag permanente e autoperpetuante, sostenuto da molteplici interessi e da una concezione punitiva di giustizia che viene dagli albori, colorata, al solito, da discriminazione razziale e usata come strumento di controllo sociale.
In questa concezione integralista il carcere è mezzo di punizione e vendetta (“retribution”) per i reati compiuti e, malgrado la mole di studi scientifici che ne indicano la maggiore efficacia, la riabilitazione rimane un principio assai aleatorio. In realtà uno dei luoghi dove l’idea si era fatta strada fu proprio la California, almeno nella stagione di progresso sociale negli anni 60 e 70, quando amministratori innovatori avevano tentato di applicare una filosofia più illuminata mirata al reinserimento dei detenuti e la diminuzione della recidiva.
MA FU UNA BREVE stagione. Le politiche progressiste furono presto vittime della deriva conservatrice e giustizialista innescata dal reaganismo. La “pubblica sicurezza” è diventata tema sempre più ricorrente delle campagne politiche e la “soluzione” immancabilmente proposta, l’inasprimento delle pene detentive e la revoca delle sentenze condizionali, con l’effetto di aumentare ancora la già enorme popolazione carceraria che sconta sentenze anche pluridecennali per accumulo anche di reali lievi. Dal 1985 al 2006 i detenuti in California sono passati da 50.000 a più di 170.000.
NELL’ESCALATION securitaria ogni riferimento alla riabilitazione è diventato anatema per un ipertrofico complesso penitenziario affiancato poi dal florido settore commerciale delle prigioni private. Gli istituti di pena sono diventati miraggio per molte località economicamente depresse degli hinterland, cittadine della provincia e del deserto dove un nuovo carcere poteva significare la creazione di lavoro – di personale e guardie – necessario a sostenere l’economia locale, una geografia di definitiva emarginazione in cui i carcerati sono diventati materia prima di un boom costruito sulla privazione della libertà. In questo contesto la polizia penitenziaria è assurta a una delle lobby più potenti del settore pubblico. Una volta introdotta la privatizzazione, gli si sono affiancati interessi con ogni incentivo per mantenere alto il tasso di incarcerazione e opporsi a tutte le riforme atte a favorire la riabilitazione.
Ironicamente fu il governatore-terminator Schwarzenegger a iniziare ad invertire la rotta agli inizi degli anni 2000, sotto il suo mandato al nome del dipartimento carcerario venne aggiunta la parola “riabilitazione.” La legalizzazione della cannabis ha portato a un sostanziale alleggerimento delle condanne e ad indulti per reati di droga leggera che avevano tenuto decine di migliaia di persone in carcere. Fra i penalisti intanto hanno preso piede teorie più scientifiche che confermano l’utilità di misure riabilitative nel ridurre il tasso di recidiva ostinatamente alto, attestato oltre il 60% nei tre anni dopo il rilascio e fino al 77% dopo cinque anni (i numeri sono simili per l’Italia.) Ogni studio e rapporto conferma al contempo quanto le percentuali si abbassino ove vengono intrapresi programmi di studio e qualificazione professionale dei prigionieri prima del rilascio. Paesi come la Norvegia dove sono implementati su larga scala – e dove l’intera esperienza detentiva è volta verso il reintegro sociale dopo il rilascio – registrano invece un abbassamento di recidiva fino a meno del 20%.
DI QUI L’INTENZIONE, annunciata dal governatore Gavin Newsom, di adottare in California il “sistema norvegese,” a cominciare da un esperimento pilota proprio nel carcere simbolo. Invece della brutalità normalizzata e del regime repressivo che ha caratterizzato la storia di San Quentin, il carcere diventerà banco di prova per formazione professionale, servizi sociali e psichiatrici e un’infrastruttura modello per la riabilitazione preventiva atta a minimizzare la probabilità di ricaduta dei detenuti al termine della pena.
Convertire San Quentin alla carcerazione etica e umanitaria, mirata a recupero e reinserimento rappresenta certo una inversione ad U in uno stato dove vige ancora l’uso diffuso del “solitary” – l’isolamento permanente simile al 41-bis – per cui migliaia di detenuti sono sepolti vivi in istituzioni “supermax” (in tutti gli Usa se ne stimano attorno a 48000.) La riforma implicherà anche la chiusura definitiva del braccio della morte e il reinserimento dei condannati nella popolazione generale.
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