Anche oggi non si vola. Non per Mosca almeno. La missione di pace di Salvini resta nel libro dei sogni, ma non senza aver inferto un’ulteriore mazzata alla credibilità già vacillante dell’ex capitano.

Difficile immaginare gestione più sgangherata di un’operazione che, a volerla provare davvero, avrebbe richiesto il massimo della diplomazia e della cura. Il leader leghista si è mosso invece con la stessa superficialità facilona di cui aveva già dato abbondante prova al Papeete, tre anni fa.

Il Pd, come è ovvio, affonda la lama, agita cupi sospetti, soprattutto dopo la sovraesposizione del «consulente» Antonio Capuano, ex parlamentare forzista dal 2001 al 2006, ora arruolato all’insaputa di quasi tutti come spin doctor dal capo leghista e di sfuggita anche consulente dell’ambasciata russa.

«Lo scenario è decisamente inquietante», si preoccupano per il Pd Borghi e Quartapelle, non senza ribadire la bocciatura piena per l’improvvida trovata «sbagliata sotto il profilo diplomatico, istituzionale, e politico».

L’accusato si difende provando, come si dice a Roma, a «buttarla in caciara»: «Persino sulla ricerca della pace, valore supremo, il Pd con l’elmetto fa polemica. Ma Letta lo sa che se la guerra prosegue e si allarga sarà disastro globale?». Argomentazione debolissima che rivela tutto l’imbarazzo nel quale è precipitato l’aspirante diplomatico, mollato anche dall’ala più istituzionale e governista del suo partito. Non solo da Giorgetti, che invita a «muoversi di concerto con il governo», anche dal governatore del Veneto Zaia: «Il percorso di pace deve essere in mano alla diplomazia».

Conte, il leader più vicino a Salvini nella critica alla politica iper-atlantista del governo, fiuta l’aria e si affretta a prendere siderale distanza: «Legittimato per dare una svolta nel processo di pace è il governo. Draghi deve essere in prima linea per imporre negoziati».

In realtà più che all’oscura trama ipotizzata dal Pd la vicenda somiglia a una squinternata comica finale. Nel progettino di Capuano, fatto proprio dal capo leghista, sarebbero dovuti essere coinvolti il papa e Draghi, che però non ne sapevano niente. Il ministero degli Esteri italiano era all’oscuro della trovata. Il Cremlino invece era al corrente e aveva anche mandato «alcuni segnali»: parola di Capuano. La goffa operazione non testimonia solo i limiti di Salvini quando esce dal perimetro del comizio. Indica anche le dimensioni del guaio in cui si dibatte.

Che presenta aspetti quasi paradossali. Stando ai sondaggi, la stragrande maggioranza degli elettori del centrodestra sarebbero in sintonia con la sua linea, contrari all’invio delle armi, favorevoli a una maggiore autonomia dell’Italia rispetto alla Nato. Ma Salvini non riesce a capitalizzare quell’assonanza di umori, che anzi gli si rovescia contro, perché, proprio come ai tempi della crociata contro il Green Pass, la somma di critiche contro il governo a parole e di consenso nel voto lo fa apparire ambiguo e impotente, sostanzialmente inaffidabile.

Al contrario della rivale Giorgia Meloni, il cui iperatlantismo è nella sostanza meno gradito dalla base, che apprezza in compenso la «coerenza». Va da sé che, se Salvini fosse riuscito a imporsi come grande mediatore, il quadro si sarebbe capovolto. Ma si trattava di un’impresa quasi impossibile. Anche a saperci fare.