Il 12 agosto 2022, a Chautauqua, ridente località lacustre nello Stato di New York, Salman Rushdie stava per prendere la parola a un incontro sulla fondazione di spazi sicuri in America per scrittori stranieri, quando un individuo mascherato gli si avventò contro, armato di coltello. Tra il pubblico, non pochi pensarono a una performance, ma si dovettero ricredere quando videro  una pozza di sangue allargarsi sotto il corpo dello scrittore: Rushdie era a terra, colpito da quindici coltellate al collo, al torace, all’occhio destro e alla mano sinistra, con cui aveva cercato di schermarsi. Quanto è seguito ai ventisette secondi di violento contatto con l’attentatore è materia di Coltello Meditazioni dopo un tentato assassinio, il memoir uscito in una quindicina di paesi, tra cui l’Italia, in contemporanea con gli Stati Uniti (traduzione Gianni Pannofino, Mondadori, pp. 235, € 21,00).

A differenza della corposa autobiografia Joseph Anton, dedicata ai giorni della fatwa, scritta in terza persona per prendere le distanze dall’autore costretto a vivere nascosto e sotto pseudonimo, Coltello è un agile resoconto in prima persona, una «I-story» che, considerando l’occhio perduto a causa dell’aggressione, è anche una «eye story», gioco di parole che indica come il racconto del trauma e del conseguente calvario ospedaliero, di cui non vengono risparmiati dettagli, venga alleggerito dal sense of humour dello scrittore, dalla sua capacità individuare negli accadimenti reali la traccia di quel surrealismo che costituisce la sostanza di tutta la sua narrativa: «Il miracoloso … aveva varcato una frontiera: era passato dal territorio della Finzione a quello dei Fatti … Il magico era diventato reale», scrive, ricordando che il 15 agosto, giorno in cui i medici hanno sciolto la riserva sulla sua sopravvivenza, è lo stesso giorno in cui l’India diventò indipendente e il protagonista del suo capolavoro, I figli della mezzanotte, venne al mondo.

Delle dolenti e interminabili settimane in ospedale, Rushdie dà conto nella prima parte del memoir, «L’angelo della morte»; mentre nella seconda, «L’angelo della vita», racconta della dimissione, del ritorno a New York – prima, per sfuggire a giornalisti e curiosi, in un appartamento a Soho prestato da un amico e poi, finalmente, a casa propria. Immagina anche un impossibile colloquio con il proprio attentatore, e termina il suo rendiconto con il ritorno, a un anno di distanza, sul luogo del tentato assassinio.

La lingua è piana, quasi a formare un dialogo sommesso con chi legge, nel tentativo (riuscito) di stabilire un contatto empatico, evitando di dilungarsi troppo sulla eccezionalità della propria situazione, per far leva piuttosto su quanto accomuna i degenti ospedalieri in tutto il mondo: la perdita di giurisdizione sul proprio corpo, l’umiliazione di vedere ispezionata da estranei la propria nudità, il dolore, gli incubi notturni, la dipendenza dagli altri, ma anche l’alto costo delle cure.  E soprattutto, Rushdie affida alla pagina considerazioni sul paradosso di trovarsi, lui ateo dichiarato, figlio e padre di atei, in una condizione degna del più divinatorio dei suoi romanzi: «credo che … l’immaginazione possa costruire un ponte tra sogni e realtà per permetterci di comprendere il reale osservandolo da prospettive inedite … Non credo ai miracoli, eppure la mia sopravvivenza è miracolosa …  La realtà dei miei libri – il mio ‘realismo magico’, se proprio volete – è ora la realtà in cui mi ritrovo a vivere. Forse i miei libri, per decenni, avevano costruito quel ponte, e adesso il miracoloso era in grado di attraversarlo. Il magico era diventato reale. Forse erano stati i miei libri a salvarmi la vita».

Quanto all’attentatore, Rushdie non gli concede la dignità di un nome: è indicato semplicemente come «l’A.», che può significare l’Aggressore, l’Attentatore, l’Assassino, ma anche (e questa possibilità sembra la preferita di Rushdie), l’Asino; non, comunque, «un angelo dell’apocalisse», ma «uno stupido pagliaccio» che, secondo l’opinione di uno dei medici che hanno in cura lo scrittore, «non aveva la minima idea di come si uccide una persona con un coltello». Per Rushdie, l’A. è «una sorta di viaggiatore del tempo … un fantasma assassino giunto dal passato» a squarciare, con una lama di coltello, la felicità del presente.

Come suggerisce la bipartizione del testo, il memoir gioca su una serie di contrapposizioni: vita e morte, arte e religione, amore e odio, commedia e tragedia. E se l’A. incarna l’odio, Rachel Eliza Griffiths, la moglie di Rushdie è, in tutto il testo, figura dell’amore: racconta il loro primo incontro, ricordandolo già allora come una  commedia romantica; ne elogia l’abnegazione; ne esalta la versatilità e il talento artistico (Eliza è poeta, fotografa, danzatrice: ed è, ovviamente, come in un film hollywoodiano, «bellissima»).

Contrariamente a quanto accadde dopo la fatwa, quando non pochi si scagliarono contro Rushdie dicendo che avrebbe provocato scientemente le ire dei fanatici islamici con le sue blasfemie, questa volta non c’erano – ovviamente – contestazioni da addebitargli, e dunque all’uomo «demoniaco», all’«arrogante», al «festaiolo» sono stati sostituiti attributi che ne hanno fatto il simbolo della libertà di parola. Al saldo di tutto ciò, Rushdie commenta non solo dicendo che si è ritrovato descritto in quanto «esemplare bizzarro, celebre non tanto per i miei libri, quanto per i guai che mi sono capitati», ma che alla fin fine il rischio è che tanto clamore renda la lettura di suoi libri «non necessaria». L’anno scorso, in conclusione del suo discorso di ringraziamento per il Centenary Courage Award, Rushdie sorprese il pubblico – e persino sé stesso – con la citazione di un vecchio slogan marxista: «Il terrore non deve terrorizzarci»… «La violenza non deve fermarci. La lutte continue».