L’ultima raccolta di saggi di Salman Rushdie, Languages of Truth, pubblicata nel 2021, si apre con un lungo scritto sui racconti di magia, Wonder Tales, in cui l’autore ribadisce l’importanza delle storie fantastiche non solo per il suo lavoro, ma per la sua formazione intellettuale. Già ai tempi dei Figli della mezzanotte, in un dialogo radiofonico con Günter Grass a tutt’oggi molto utile per la comprensione della sua poetica, Rushdie affermava di essere diventato scrittore solo per raccontare storie come quelle ascoltate in India da bambino, bugie meravigliose in grado di «dire una verità che non si poteva dire in altro modo».

A distanza di quattro decenni, in Wonder Tales, riconoscendo ancora una volta il proprio debito verso la tradizione favolistica tanto orientale quanto occidentale, arriva alla conclusione per cui il fantastico, lungi dall’essere mero escapismo, «è un modo per arricchire e intensificare la nostra esperienza del reale». In effetti, tutta la produzione narrativa di Rushdie gioca sul continuo interscambio tra il mondo dell’immaginazione, falso ma saturo di scottanti verità, e il mondo «reale», che spesso esibisce aspetti più fantastici o surreali di quanto l’immaginazione possa concepire.

Alle radici del fantastico
Rintracciando nelle leggende e nei miti religiosi indiani le radici del fantastico universale, dalle Mille e una notte fino al realismo magico sudamericano, in Wonder Tales Rushdie identifica nel proprio lavoro la chiusura di un cerchio, ovvero un modo di «riportare la tradizione storica del fantastico nel luogo delle sue origini, nel paese dove tutto è cominciato». Non stupisce quindi che, un anno dopo la pubblicazione di Languages of Truth, Rushdie abbia terminato un romanzo, La città della vittoria (traduzione di Stefano Mogni e Sara Puggioni, Mondadori, pp. 358, € 22,00) interamente ambientato in India e ispirato a storie e mitologie locali, i cui i molteplici elementi fiabeschi sono ancorati a fatti storici realmente accaduti tra il XIV e il XVII secolo, al tempo, cioè, dell’impero di Vijayanagar – la città della vittoria, in sanscrito – che si estendeva su larga parte dell’India meridionale e sull’altopiano del Deccan.

Avvalendosi dell’espediente per cui ne avrebbe trovato il manoscritto in una giara, Rushdie si finge volgarizzatore e traduttore in prosa del poema, Jayaparajaya («Vittoria e sconfitta»), 24000 versi in cui la poetessa cieca duecentoqarantasettenne Pampa Kampana, dotata di magici poteri, racconta le vicende di quell’impero, inserendo in un’atmosfera decisamente fiabesca situazioni reali confermate dai testi storici, che Rushdie elenca nella bibliografia in appendice.
Così, al suicidio di massa delle vedove di guerra realmente avvenuto all’inizio del XIV secolo con cui si apre il romanzo, fa seguito la benedizione celeste della dea Parvati che, per bocca di una Pampa ancora bambina, appena reduce dall’avere assistito al rogo della propria madre, profetizza la nascita della capitale di un grande impero, destinato a durare più di due secoli. Se nel romanzo la città sorge miracolosamente dai semi magici di Pampa, i due mandriani che hanno sparso quei semi, e che per primi salgono al trono, Hukka e Bukka, sono autentici personaggi storici, i primi due re di Vijayanagar.

E se, altrettanto magicamente, i primi abitanti, venuti dal nulla insieme alla città, acquisiscono pensieri, sogni, ricordi, ovvero la loro fisionomia solo attraverso le storie che Pampa sussurra alle loro orecchie, Domingo Nuñes, il commerciante di cavalli portoghese di cui Pampa diviene l’amante e che le riappare in diverse reincarnazioni nel corso della sua lunghissima vita, riprende e condensa in sé i tratti di due viaggiatori lusitani effettivamente vissuti, che nei loro diari esaltano le bellezze dell’impero di Vijayanagar. Non da ultimo, mentre esiste vasta documentazione sulle battaglie contro i sultanati del Nord, combattute dall’esercito imperiale con i suoi elefanti da guerra, cui Rushdie dedica parecchie pagine, frutto assoluto della sua fantasia sono invece tanto il regno di Pampa, quanto il suo esilio in una foresta che sembra lo scenario di una fiaba dei fratelli Grimm. Del resto, tutti i riferimenti letterari presenti nel testo rimandano alle storie sacre indiane e alle favole occidentali, con un’unica eccezione, Le città invisibili di Calvino, modello per i racconti di tutti gli stranieri che arrivano a Bisnaga (il nome che il viaggiatore portoghese dà alla capitale dell’impero).

Le pirotecnie verbali, le strutture complesse o i rimandi intertestuali che hanno fin qui connotato la narrativa di Rushdie cedono il passo, tra queste pagine, a un racconto lineare, dotato di un linguaggio che lo stesso autore in apertura del romanzo definisce «piano», precisando di non essere «uno studioso né un poeta, ma un mero tessitore di trame». Fin troppo alla lettera lo hanno preso i traduttori italiani, che hanno addomesticato fino ai limiti della banalità la lingua di Rushdie, sempre ricca e variegata: difficile immaginare che nel suo lessico sfavillante trovino spazio espressioni desuete o alquanto colloquiali come «vecchia bacucca» o «alla fine della fiera». Uno «spinner of yarns» non si limita a tessere trame: come una principessa all’arcolaio, fila le sue storie favolose che, spiega Rushdie, «arrivano al reale per una strada diversa».

Attraverso Bisnagra dalle sette cinte di mura, superando la giungla in cui «il passato viene inghiottito», e oltre i campi di battaglia e le stanze sordide al di là del Recinto Reale in cui Pampa viene accecata, Rushdie evidenzia i danni dell’integralismo, conducendoci al sogno di un mondo senza religioni, in cui governano con saggezza donne libere e volitive, e ogni sorta di fondamentalismo è condannato, svelando l’inconsistenza delle religioni e delle loro gerarchiche cosmogonie. Mentre l’aspra requisitoria contro l’integralismo rimanda ai Versi Satanici, l’idea di un racconto della storia al femminile trova antecedenti in altri romanzi di Rushdie, come e, soprattutto, L’incantatrice di Firenze, la cui trama si snoda tra il Rinascimento italiano e l’India della dinastia Moghul.

Chiusura del cerchio
In questa prospettiva, La città della vittoria appare davvero come «una chiusura del cerchio», un ritorno del racconto di magia alla terra delle sue origini. Quanto al personaggio di Pampa, che con le sue storie crea un mondo e ne disegna gli abitanti, spetta a lei riproporre l’elemento metanarrativo sempre presente nelle opere di Rushdie, dai Figli della mezzanotte a Quichotte, esaltando, ancora una volta, il potere delle parole.

«Il linguaggio è coraggio: la capacità di concepire un pensiero, di tradurlo in parole, e così facendo di dargli verità», scriveva Rushdie in un passo, giustamente famoso, dei Versi satanici. Trentacinque anni dopo, Pampa Kampana termina così il suo poema: «Come sono ricordati, ora, quei re, quelle regine? /…/ Le loro gesta saranno conosciute solo nel modo in cui sono state raccontate / Significheranno ciò che io desidero che significhino /… Tutto ciò che rimane è questa città di parole. / Le parole sono le uniche vincitrici». Alla fine, è il racconto la città della vittoria.