«Da gennaio a oggi abbiamo distribuito meno del 50% di quanto previsto. Stiamo parlando di un valore medio, in quanto non vi è mai stata uniformità. Significa che a seconda dei mesi è cambiato il quantitativo di cibo consegnato: a volte sette, a volte cinque, a volte tre, invece dei previsti diciassette chilogrammi».

A SNOCCIOLARE NUMERI che raccontano sinteticamente la drammaticità della situazione è Buhubeini Yahya, il responsabile della Media Luna Roja Saharawi, ong che dalla seconda metà degli anni settanta si occupa della distribuzione degli aiuti umanitari nei campi profughi saharawi. Lo abbiamo incontrato nella sede della Media Luna, locata a Rabuni, dove vengono stoccate e distribuite le risorse alimentari inviate dalla cooperazione internazionale: «Per ognuno dei nostri beneficiari, dovremmo provvedere alla consegna di un cesto contenente le razioni di cibo necessarie a un bisogno calorico per persona di 2.100 kcal giornaliere. Gli ultimi dati ufficiali rilasciati dall’Onu attraverso il Pam (Programma alimentare mondiale, ndr) sono emblematici: lo scorso mese di agosto le razioni consegnate erano composte da due chili di orzo, due di lenticchie, 920 grammi di olio vegetale e 750 grammi di zucchero, per un totale di 5 chili e 670 grammi, ovvero un terzo di quanto atteso. Con la totale assenza di riso e farina. Siamo in questa situazione in quanto vi è una carenza di finanziamenti che non riesce a coprire l’aumento generalizzato degli approvvigionamenti: il costo del paniere, solitamente quantificabile in 19 milioni di dollari all’anno, arriverà nel 2023 a 39 milioni. Praticamente il doppio».

LE PAROLE DI YAHYA fanno ben comprendere l’urgenza in atto, che è indiscutibilmente legata alle questioni sanitarie e geopolitiche che hanno scosso l’intero assetto mondiale negli ultimi tre anni: «A contribuire all’aumento spropositato dei costi ha concorso in modo determinante la pandemia da covid19, a cui si è aggiunto il peso del conflitto Ucraina-Russia. In tal senso, speriamo che tutta la comunità internazionale capisca che senza le giuste risorse economiche gli sforzi del Pam non bastano a coprire i fabbisogni necessari». L’esito degli eventi elencati da Yahya si rintraccia visibilmente nei capannoni in cui vengono immagazzinate le razioni alimentari salvavita: sono desolantemente vuoti. A complicare ancor più le cose, è l’isolamento che i campi profughi saharawi vivono dal 2020. Nonostante l’emergenza pandemica a livello globale sembri aver superato il punto di maggior criticità, da queste parti continua nel medio e lungo periodo a dare effetti. Va rammentato infatti che l’assenza da oramai tre anni dei consueti flussi di cooperanti e visitatori da ogni angolo del mondo a seguito delle restrizioni sanitarie, ha comportato da un momento all’altro una drastica riduzione delle attività che questi svolgevano in loco.

 

foto di Gianluca Diana

 

Tra i tanti progetti presenti in tutte e cinque le wilayas, a subire l’impatto maggiore sono stati probabilmente quelli di natura sanitaria destinati a individui fragili, per lo più minorenni, che necessitano di assistenza specialistica. Se a queste difficoltà si sommano i risultati di un’indagine condotta sempre dal Pam riguardante il trattamento della malnutrizione acuta moderata (Mam) nella popolazione infantile che va dall’età neonatale a quella pre-scolare, si chiarisce ulteriormente quanto la crisi alimentare in atto sia estremamente preoccupante. Parliamo di circa 14mila bambini a cui è stato dato il 50% della razione prevista dall’integrazione nutrizionale della quale necessitano, da cui è conseguito un innalzamento dei dati che riguardano l’arresto della crescita nella stessa fascia anagrafica. Non va di certo meglio alle madri, in cui si è messo in evidenza un aumento delle donne che soffrono di anemia tanto in gravidanza quanto in allattamento.

LA COMPLESSITÀ DEL QUADRO si accresce oltremodo se si considera che è ancora in atto la guerra tra la Repubblica araba Saharawi democratica (Rasd) e il Marocco. Non accennano a diminuire gli scontri lungo il muro che divide il territorio liberato del Sahara Occidentale, sotto il controllo della Rasd, da quello occupato dalle truppe di Rabat. Il conflitto che ha preso il via il 13 novembre del 2020 prosegue e con questo, le conseguenze che ne derivano. Tra le principali quella che riguarda i rifugiati in fuga dai territori liberati: le stime che un anno fa parlavano di circa 5mila persone, appaiono ora superate pur se non effettivamente verificabili. Questa particolarità è data dalla specificità della situazione, trattandosi non solo di comunità in fuga da villaggi come Tifariti e Mehaires, ma da una consistente parte di persone dedite per lavoro al nomadismo con la propria famiglia e che percorrono l’intero perimetro del Sahara occidentale non occupato fino al confine con la Mauritania.

NEGLI ULTIMI MESI l’arrivo di questi nuclei familiari nei campi profughi è aumentato, a seguito dei maggiori rischi di rimanere uccisi durante le azioni militari. A giungere qui sono sovente madri con figli al seguito, in quanto il capofamiglia, quando ancora possibile, tenta di mantenere il bestiame ancora in vita cercando nuovi pascoli. Stime non ufficiali e da confermare, parlano di un numero oscillante tra le 16mila e le 19mila unità, che vanno ad aggravare ancor più l’accesso già esiguo alle razioni alimentari disponibili.