Internazionale

Guantanamo d’Africa e guerra psicologica, i Saharawi in gabbia

Un veicolo delle forze armate marocchine a Guerguerat, nel Sahara Occidentale occupato foto Getty ImagesUn veicolo delle forze armate marocchine a Guerguerat, nel Sahara Occidentale occupato – Getty Images

Intervista Mohamed Dihani, in fuga dalle persecuzioni marocchine e giunto in Italia con l’aiuto di Amnesty, racconta la sua storia di violenze e carcere nel Sahara Occidentale occupato: «Sono stato legato in posizioni inumane e picchiato per settimane. I passi dei secondini che venivano a prendermi significavano la morte ogni volta»

Pubblicato 8 mesi faEdizione del 21 marzo 2024

Zemla è un quartiere di El Aaiun, capitale del Sahara Occidentale. Fa parte del centro storico, nella sezione alta dell’abitato, quella più antica e popolare. È storicamente importante per i saharawi, in quanto a Zemla il 17 giugno del 1970 il Tercio, la legione spagnola, represse nel sangue la manifestazione pacifica organizzata dal Movimiento Nacional de Liberación Saharaui. Oltre ad arresti, feriti e morti, scomparve nel nulla Mohamed Bassiri, il leader di quel movimento di indipendenza.

ERANO GLI ALBORI della questione autonomista e da allora il barrio ha sempre mantenuto centralità nel tema. Numerosi negli anni sono stati gli attivisti che da Zemla hanno dato il via al loro percorso, incluso Mohamed Dihani che il 22 luglio 2022 è atterrato a Roma con l’intento di chiedere protezione internazionale, grazie al supporto di Amnesty che ne segue la vicenda dal 2011 e che lo sostiene in questa fase di limbo in cui attende di ottenere lo status di rifugiato: «È stato un momento speciale, non solo per il ritorno in Italia, ma perchè è stata la prima volta dopo tanto tempo – racconta – in cui ho camminato in strada senza guardarmi le spalle. Avere e sentire questa sicurezza, sapendo di essere libero di circolare fino a notte fonda senza paura, è stato emozionante. E bellissimo».
Con l’ingresso nel nostro paese Dihani si è messo alle spalle un lungo periodo di atti persecutori e violenze psicofisiche subite nelle carceri marocchine, dove è stato ripetutamente rinchiuso a seguito del suo impegno politico. Una storia la sua illustra come, sistematicamente, il Marocco violi nei territori occupati del Sahara Occidentale in modo premeditato e organizzato i più elementari diritti umani.

Aberranti e conosciute sono le sopraffazioni inferte a donne e uomini, meno note e altrettanto vergognose sono le coercizioni psicologiche destinate al mondo infantile, preludio di quanto accadrà in età adulta. «Sono nato nel 1986 – racconta Dihani – e fino a nove anni credevo di avere un re che si chiamava Hassan II e di essere marocchino, non saharawi. Questo perché non si poteva parlare né di Sahara Occidentale né del Polisario. La quotidianità era fatta di uomini in divisa nera, la polizia di intervento speciale, a cui si aggiungevano quelli in verde, le forze ausiliari paramilitari. Li incontravo ogni giorno in strada, a scuola dove erano accampati nello spazio antistante l’edificio, intorno alla nostra abitazione. Come tutti non potevo andare in giro dopo le sette di sera per via del coprifuoco. Erano le famiglie stesse a impedirlo, perché negli anni Settanta e Ottanta le sparizioni forzate avevano riguardato non solo gli attivisti ma anche bambini e adolescenti. Questi racconti dovevano rimanere in casa, era troppo rischioso parlarne fuori».

Il mondo di Dihani cambiò radicalmente una mattina del 1996, quando all’uscita da scuola incappò in una manifestazione contro il regime di Rabat: «Rimasi colpito dalla nostra gente che urlava “Polisario”. Mi unii a loro, ma all’improvviso la polizia caricò violentemente picchiando tutti. Svenuto per le percosse, fui rinchiuso in una caserma per un giorno e mezzo durante il quale fui obbligato a fare le pulizie ovunque».

ANCHE L’ADOLESCENZA dura meno del previsto: dopo altri arresti, nel 2001 Dihani viene nuovamente tradotto in prigione e al contempo cacciato dalla scuola media. Negli anni successivi intensifica consapevolmente il suo attivismo che matura anche grazie al periodo in cui vive in Toscana, fino a quando il 28 aprile 2010, tornando a El Aaiun per festeggiare la scarcerazione di un cugino detenuto per aver suonato una canzone di Mariem Hassan, viene rapito dalla polizia con l’accusa di terrorismo: «Mentre mi portavano verso il carcere di Temara, presso Rabat quindi parliamo di 24 ore di viaggio, mi hanno fatto sdraiare sul fondo dell’auto sotto i piedi dei poliziotti seduti dietro. Temara, non casualmente, viene chiamata “Guantanamo d’Africa”. In quei mesi ho subito continuamente torture di ogni genere. Mi hanno legato in posizioni inumane picchiandomi per settimane, anche sui genitali dove introducevano gli stessi listelli con cui mi bastonavano. Il tutto mentre ero in isolamento. Lo squillo del telefono che avvisava i secondini di venire a prendermi e i loro passi in avvicinamento, significavano la morte ogni volta. Sono rimasto lì fino al 29 ottobre del 2010».

 

Mohamed Dihani (foto di Gianluca Diana)

 

Dopo Temara, ancora carceri e violenze, fino a ottobre 2015: «Grazie alle pressioni internazionali, mi rilasciarono dopo cinque anni e sei mesi. “Di nuovo libero”, pensai. Invece ero sotto sorveglianza di intelligence e polizia. Due macchine mi seguivano ovunque mentre un’altra restava fissa davanti casa. Il controllo costante era una minaccia per chi voleva anche solo salutarmi: la gente mi evitava cambiando strada. I marocchini erano riusciti a isolarmi. Era una guerra psicologica a cui reagii prendendo contatto con Amnesty International. È un rapporto che prosegue ancora oggi».
Nel 2018 la richiesta da parte della ong di un visto per cure mediche da svolgere in Italia, ha dato il via alle operazioni che hanno portato Dihani a rifugiarsi prima in Tunisia nel 2019 per poi giungere qui.

«SONO ANCORA NELLA BLACKLIST del SIS (Schengen Information System). È ingiusto, non sono un terrorista e questa cosa mi impedisce di ottenere la protezione internazionale, motivo per cui con i miei avvocati abbiamo presentato ricorso in Cassazione. Nel frattempo il Centro Astalli ha riconosciuto che sono stato vittima di torture. Ora – conclude – confido nella giustizia e nella società civile italiana».

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