L’assicuratore pubblico Sace non molla la sua presa sul comparto dei combustibili fossili. Questa volta potrebbe garantire un finanziamento di ben 500 milioni di dollari a una delle società più controverse dell’America Latina, Petroperù, di proprietà dello Stato peruviano. Un affare confermato anche in Parlamento, in seguito a un’interpellanza urgente presentata dal gruppo Alleanza Verdi e Sinistra. L’immensa somma di denaro sarebbe destinata alla realizzazione del progetto di ammodernamento della raffineria di Talara, nel nord del Paese. Petroperù, Sace e il governo italiano definiscono Talara un’«opera green», sebbene in pochi credano a questa dichiarazione. Non foss’altro perché se l’obbiettivo, a pieno regime, è quello di processare ben 95 mila barili di petrolio al giorno, risulta difficile credere negli intenti «virtuosi» della società estrattiva. Anche in considerazione del fatto che, per il momento, la produzione giornaliera del Perù si attesta a solo circa 40 mila barili.

DI SICURO A NON FIDARSI SONO LE ASSOCIAZIONI locali, che denunciano come la raffineria, anche «ammodernata», avrà pesanti impatti in termini di inquinamento, emissioni e violazione dei diritti delle comunità indigene. Soprattutto perché, come accennato, l’impianto servirà per processare il petrolio proveniente da quattro blocchi nell’Oceano Pacifico e in piena Amazzonia. Petroperù ha infatti ripreso le attività di estrazione, dopo essersi dedicata negli ultimi anni principalmente alla raffinazione e al trasporto del greggio tramite le sue infrastrutture.

PER EVITARE L’ENNESIMO REGALO AL SETTORE estrattivo, due settimane fa l’organizzazione internazionale Amazon Watch – supportata da ReCommon – e le comunità locali e indigene Peruvian Federation of the Achuar Nationality (FENAP), Autonomous Territorial Government of the Wampis Nation (GTANW) e l’Organizzazione dei pescatori di Cabo Blanco hanno scritto a Sace, chiedendo che il supporto finanziario non sia concesso in alcun modo perché avrebbe pesanti impatti sui territori abitati per l’appunto dalle comunità già menzionate.

IN UN PRECEDENTE SCAMBIO EPISTOLARE con Amazon Watch, la banca francese BNP Paribas, altro possibile soggetto interessato a finanziare Talara, ha di fatto confermato i timori di natura socio-ambientale legati ai lavori di ammodernamento dell’impianto.

DEI QUATTRO BLOCCHI DA CUI DOVREBBE provenire il greggio per la raffineria, solo quello offshore è operativo, con una produzione però molto marginale, tanto che si attesta solo su 480 barili al giorno. Per quelli su terra ferma lo stop è legato alle proteste delle comunità locali nei pressi del confine con l’Ecuador, che si oppongono all’ennesimo scempio dei loro territori in nome della folle corsa all’oro nero. Tuttavia Petroperù intende sviluppare altri sei blocchi a largo della costa, così da incrementare la produzione fino ai 95 mila barili giornalieri già citati e giustificare così un progetto, quello della raffineria di Talara, che ha il costo esorbitante di 5,3 miliardi di dollari. Un’altra problematica di non poco conto è il rischio che una spesa così consistente possa incrinare la situazione debitoria di Lima, già a dir poco complessa.

«PETROPERÙ» HA UNA LUNGA STORIA DI PESANTI violazioni dei diritti delle popolazioni indigene, che spesso hanno inscenato proteste per provare a porre un freno alle attività della multinazionale, non ultimo il blocco dei giacimenti che dovrebbero garantire parte del petrolio da processare nella raffineria di Talara. Le operazioni di Petroperù, inoltre, sono state spesso segnate da gravi episodi di presunta corruzione, oltre ad avere un bilancio perennemente «in affanno» e a essere ancora coinvolta in ben otto casi legali di varia natura. La società statale ha appena cambiato cinque presidenti nel corso di un anno, a testimonianza che è contraddistinta da una fortissima instabilità, un motivo in più affinché SACE eviti il coinvolgimento nell’ennesimo progetto ad altissimo rischio socio-ambientale che peserebbe sulle tasche della cittadinanza italiana, nonché in netta contraddizione con gli impegni presi dall’Italia per la lotta alla crisi climatica.

NON CHE SACE NON SIA NUOVA A «CORPOSI AIUTI» all’industria fossile: fra il 2016 e il 2022 ha concesso la ragguardevole cifra di 15,1 miliardi di euro di garanzie a progetti di petrolio e gas. Non solo, ha anche di fatto tradito gli impegni presi alla COP26 di Glasgow. A novembre 2021, in occasione della Conferenza sul clima, 34 paesi e cinque istituzioni finanziarie pubbliche firmarono un impegno congiunto, la cosiddetta Dichiarazione di Glasgow per porre fine a nuovi finanziamenti pubblici internazionali ai combustibili fossili entro il 31 dicembre 2022. L’Italia, che condivideva con il Regno Unito la presidenza della COP26, aderì solo all’ultimo minuto alla Dichiarazione di Glasgow. Ma il ritardo non si è limitato ai giorni del summit, ma ha riguardato anche l’implementazione della politica da parte di SACE. Come se non bastasse, quanto disposto da SACE non va esattamente nella direzione giusta in merito alla lotta alla crisi climatica.

INNANZITUTTO PERCHÉ L’ASSICURATORE PUBBLICO italiano definisce il gas un combustibile di transizione, strategico per la sicurezza energetica italiana. In seconda battuta, in nome di una non meglio precisata «sicurezza energetica» italiana, ogni data menzionata nella policy di Sace per chiudere con le fossili potrebbe essere posticipata all’infinito. Ma nella logica della sicurezza energetica italiana sembrerebbe rientrare anche un progetto per la raffinazione del petrolio come quello di Talara. Tuttavia è lecito chiedersi: come può garantire la sicurezza energetica italiana una raffineria in Perù, gestita da un’azienda in crisi e responsabile di importanti impatti ambientali e sociali?