«Russian doll», risalire all’origine per scoprirsi di nuovo
Era attesa da circa tre anni la seconda stagione di Russian doll, la serie Netflix interpretata e co-ideata da Natasha Lyonne. L’attrice statunitense si cala ancora nei panni di Nadia, una programmatrice di software dalla personalità forte e dall’ironia tagliente. Era certo difficile immaginare un seguito, vista la conclusione della prima serie: Nadia era uscita finalmente da quel terribile loop a causa del quale ogni episodio ricominciava dallo stesso luogo, il bagno, e momento, la festa del proprio trentaseiesimo compleanno, per terminare poi sempre con la morte. Quando iniziano le nuove puntate – sette, dalla durata di mezz’ora circa – è passato qualche anno, siamo sempre a New York e sappiamo poco di cosa abbia fatto Nadia nel frattempo, oltre ad aver badato alla sua «seconda madre» Ruth, ricoverata in ospedale. Quasi subito si svela però il meccanismo su cui è fondata la seconda stagione.
LA PROTAGONISTA prende un treno e, all’improvviso, si ritrova nel 1982. Un classico viaggio nel tempo quindi, a cui segue inevitabilmente un’aderenza all’estetica, allo stile e alle specificità di quegli anni – una tendenza questa che va avanti da diverso tempo nel mondo delle serie, trainata dal celebre Stranger things. Ne giova, in aggiunta, anche la colonna sonora composta, tra gli altri, da Depeche Mode, Danzig, Brian Eno.
Non è tutto però, perché Nadia si rende presto conto di vivere in realtà nel corpo della madre, e non in un momento qualsiasi – a poche settimane dal parto di, nientemeno, se stessa. Stavolta però la protagonista non è intrappolata, può far avanti e indietro tra passato e presente, e presto Ruth diverrà il personaggio di continuità tra i due mondi. Senza andare oltre nelle anticipazioni sulla trama, bisogna sottolineare che Russian doll – espressione inglese per indicare la matrioska, calzante anche stavolta – non va certo presa come un intrigo sci-fi, in cui cercare una coerenza rispetto alla possibilità dei viaggi nel tempo o allo scambio di identità. Il punto invece è sempre indagare i meccanismi della mente in relazione al trauma, dare loro una trasposizione in immagini che segua la via della similitudine e dell’evocazione, in un puzzle personale che prende forma poco a poco.
QUESTA SECONDA SERIE è incentrata senza dubbio sul personaggio della madre e sull’emergere di un contatto con le sue fragilità, per capirla e perdonarla. Il sentimento di ricerca dell’origine, la mancanza della fusione primordiale, è forte, ma questo non porta ad alcuna idealizzazione del genitore, al contrario è solo un modo per guardarsi allo specchio, per cogliere qualcosa di sé, senza però sfociare nell’accusa. «Sarebbe bello se ci fosse qualcuno a cui dare tutta la colpa» afferma Nadia riferendosi a Dio, ma lo stesso può valere anche per la madre o per se stessi. Il messaggio di Russian doll è quello dell’accettazione, di redimere ciò che è stato, riconoscendo poi che molti possono essere i genitori, le persone che ci hanno amato e protetto. In conclusione, se il meccanismo narrativo è forse meno originale di quello della prima stagione, rimangono i ritmi veloci, i dialoghi ben scritti. Ma è soprattutto il personaggio di Nadia, il suo totale anticonformismo, la sua provocatoria spontaneità, ad essere al centro del progetto. Natasha Lyonne si prende la scena, impersonando una piccola anti-eroina dei nostri tempi. Ha dichiarato di aver immaginato Russian doll per decenni nella propria mente, e allora possiamo dire che è proprio il trip di Lyonne ad averci affascinato ancora una volta.
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