Oggi si aprono i seggi in Russia per le elezioni presidenziali più discusse dell’era Putin, le prime che coinvolgeranno anche i territori occupati in Ucraina. Con la guerra in una fase delicatissima, ma favorevole a Mosca dal punto di vista militare, le minacce incrociate di guerra atomica con l’«Occidente collettivo» e i postumi della morte di Navalny, Vladimir Putin si avvia verso il plebiscito.

«ELEZIONI-FARSA», le chiamano gli ucraini, «inviate gli osservatori dell’Osce» chiede l’oligarca russo in esilio Khodorkovsky, «astenetevi» suggeriscono i miliziani russi filo-ucraini che nel frattempo effettuano nuovi raid nelle regioni di Belgorod e Kursk, «date un segnale e presentatevi tutti alle 12 di domenica per far capire da che parte state» proclama la vedova di Navalny. Tutti a ovest hanno un motivo per criticare la tornata elettorale che inizia oggi e che durerà fino a domenica sera, soprattutto dopo l’aggressione al braccio destro di Navalny a Vilnius e la morte (ufficialmente per suicidio) del vicepresidente della Lukoil Vitaly Robertus, l’ennesimo top manager russo degli idrocarburi morto in circostanze misteriose. Ma ciò che è certo è che chi ha governato la Russia quasi ininterrottamente dal maggio del 2000 sarà ancora al suo posto lunedì. Lo stesso che ieri si è rivolto alla cittadinanza esortandola a «venire alle urne ed esprimere la propria posizione civica e patriottica, votare per il candidato prescelto, per il futuro di successo della nostra amata Russia». Gli analisti sostengono che in queste parole di Putin vadano letti i timori per un alto tasso di astensionismo, ma negli ultimi due anni abbiamo imparato bene che le categorie occidentali non si possono applicare a un universo complesso come quello della Federazione russa.

C’È UNA PARTE considerevole dei russi che voterà per Putin scientemente, perché è l’emblema del nuovo «padre della patria» in un’epoca di confusione e perché ha riportato Mosca al centro della scena. Poco importa che il protagonismo russo derivi da una guerra sanguinosa che ha lasciato migliaia di famiglie dalla Siberia al Mar Nero a piangere figli, padri e mariti. Anzi, suggerisce il leader, proprio per questo. Come nella sua rappresentazione più realista il potere non si nasconde dietro i buoni sentimenti, ma fa suo l’odio e invita a seguire l’esempio «degli abitanti» delle regioni occupate «che hanno votato al referendum di annessione nelle condizioni più difficili». Come loro, continua Putin, «voteranno anche i nostri soldati al fronte. Loro, mostrando coraggio ed eroismo, difendono la patria. E partecipando alle elezioni, hanno dato l’esempio a tutti noi». Quale esempio, verrebbe da chiedersi, se non fosse che i soldati al fronte sono come tutti i soldati al fronte di tutte le guerre: figli delle classi meno abbienti ingannati o costretti a dare la vita per chi poi usa il loro sacrificio per riempirsi la bocca di parole altisonanti come gloria e onore.

PERCIÒ LA VERA sconfitta per Putin sarebbe un astensionismo massiccio: il suo governo si nutre del consenso dello stesso popolo che intanto opprime. La mancanza di acclamazione da parte delle folle vorrebbe dire che qualcosa in quel rapporto tra il capo e le masse si è incrinato.
Nel dubbio la Procura di Mosca ha ammonito i cittadini dal partecipare a manifestazioni di dissenso il 17 marzo, come chiesto da Yulia Navalnaya, e l’allerta delle forze di polizia è massima. Il colpo di scena va lasciato al teatro, nella realtà dei governi autoritari tutto deve svolgersi da copione.