Primavera 1944, dopo mesi di preparazione due giovani ebrei slovacchi, Alfred Wetzler e Walter Rosenberg, che nella sua fuga attraverso l’Europa occupata dai nazisti avrebbe preso in seguito il nome di Rudolf Vrba, riescono ad evadere dal lager di Auschwitz dopo essersi nascosti per giorni sotto una catasta di legna posta nel circuito esterno al campo dove sorgeva un cantiere e aver sviato le ricerche dei cani delle SS cospargendo quel nascondiglio di un tabacco russo dall’odore acre. Rudi e Fred riusciranno a mettersi in salvo raggiungendo ciò che restava delle organizzazioni ebraiche slovacche allo scopo di informare l’opinione pubblica internazionale, e soprattutto gli Alleati, dello sterminio in atto in quello come in altri lager nazisti. Il rapporto redatto a partire dalle loro testimonianze, noto anche come «Protocolli di Auschwitz», sarebbe stato utilizzato successivamente durante il Processo di Norimberga ma non suscitò all’epoca le reazione che i due fuggiaschi si erano ripromessi: fermare il massacro. Trasferitosi nel dopoguerra in Canada, sarebbe morto a Vancouver nel 2006 a 81 anni, Rudi Vrba non avrebbe rinunciato però anche in seguito alla lotta in nome della verità, ancora nel 1985 testimonierà a Toronto al processo contro il negazionista Ernst Zündel. La storia di Vrba, del gesto straordinario compiuto insieme a Wetzler, e dei lunghi anni nei quali continuò a raccontare di quell’allarme inascoltato sono oggi ricostruiti con grande cura e passione dallo scrittore e giornalista britannico Jonathan Freedland in L’artista della fuga (Neri Pozza, pp. 414, euro 20, traduzione di Leonardo Clausi). Il resoconto di una lucida testimonianza che tra memoir e romanzo d’avventura aiuta a far luce sulla vita quotidiana ad Auschwitz come sul modo in cui all’epoca si guardava a quanto lì stava accadendo e alla sorte di quanti vi erano imprigionati.

Lo scrittore e giornalista britannico Jonathan Freedland

Quando si è imbattuto per la prima volta nella figura di Rudolf Vrba?
È accaduto a metà degli anni ’80 in un cinema londinese dove ero andato a vedere Shoah di Claude Lanzmann. Avevo 19 anni ed è stata una strana esperienza stare seduti al buio ad assistere a questa processione di uomini grigi, vecchi, quasi distrutti. E poi sullo schermo è apparsa una figura che assomigliava un po’ all’Al Pacino di Scarface: indossava un cappotto di pelle marrone e aveva una chioma folta di capelli scuri e lucenti. E soprattutto parlava in inglese, quando tutti gli altri nel film parlavano in polacco, russo o tedesco. Sembrava una figura del presente piuttosto che del passato. Lui accennava quasi marginalmente alla sua fuga da Auschwitz; il regista non era del resto interessato alla vicenda. Mentre io fui subito catturato da quel racconto. Sapevo che era stato quasi impossibile per un prigioniero scappare da Auschwitz. Eppure ecco quest’uomo che c’era riuscito. La sua storia mi ha affascinato. E credo di aver sempre saputo che l’avrei approfondirla. Era solo questione di tempo.

Infatti l’idea di raccontare in un libro la storia di Vrba sarebbe venuta in seguito, in anni recenti, quando, come lei ha spiegato, l’orizzonte è stato dominato dalle fake news o dalla cosiddetta post-verità.
È vero, la decisione di scriverne la storia è arrivata quasi quarant’anni dopo. Ripensavo costantemente alla vicenda di Vrba che aveva rischiato tutto per tirar fuori la verità da sotto una montagna di bugie, e all’improvviso ci trovavamo proprio immersi in un mondo che annegava nelle bugie. Basti pensare alla campagna per la Brexit, a quella di Trump nel 2019, ma anche a Putin e alla Russia e alla loro disinformazione costante: siamo circondati dalle menzogne. L’esempio di Rudi Vrba mi è apparso perciò come una sorta di caso estremo di lotta per la verità. E ho pensato che mettere in luce ciò che aveva fatto lui allora facesse emergere tutta l’importanza della verità: come a volte la differenza tra verità e menzogna possa fare la differenza tra la vita e la morte.

Quando ha deciso che questa storia andava raccontata, come ha rimesso insieme i pezzi di una vita lunga e complessa come quella di Vrba?
Sono stato molto fortunato perché Vrba ha lasciato molte testimonianze dietro di sé. Intanto aveva scritto un ottimo libro di memorie pubblicato quasi sessant’anni fa. Inoltre era comparso spesso in tribunale, testimoniando contro i criminali di guerra e anche contro i negazionisti dell’Olocausto. E, come ricordavo, era stato intervistato da storici e cineasti, come Lanzmann. Perciò avevo a disposizione migliaia di pagine e di video che raccoglievano la sua voce. Poi ho rintracciato la sua prima moglie, Gerta, 93 anni, che viveva a Londra: durante l’estate del Covid del 2020 ci siamo seduti nel suo giardino, ricordando l’uomo con cui era stata sposata, il suo primo amore. Lei aveva conosciuto Rudi da ragazzo, ben prima che finisse ad Auschwitz. Durante uno di quegli incontri mi consegnò una valigia rossa e mi disse: «Queste sono le lettere di Rudi, voglio che tu le abbia». Quello è stato il momento in cui ho capito che avrei dovuto scrivere davvero questo libro.

Accanto alla descrizione del funzionamento del campo di Auschwitz, attraverso lo sguardo di Vrba emergono anche le forme di resistenza espresse da una parte dei prigionieri. Di cosa si trattava?
Credo che la principale forma di resistenza di quei prigionieri fosse di tipo spirituale. Rimanere in vita rappresentava già una sfida ai nazisti. Ma ad Auschwitz c’è stata anche una resistenza clandestina, in qualche modo organizzata: un elemento questo che non è forse così noto ai più. I prigionieri riuscirono in alcuni casi a usare la corruzione e il ricatto per fare pressione sugli ufficiali delle SS che li sorvegliavano. E grazie a ciò a farsi affidare dei lavori meno pesanti all’interno del campo. Lo stesso Rudi Vrba riuscì ad ottenere un lavoro d’ufficio che gli permise di mangiare meglio, di indossare i suoi vestiti e gli consentì di accumulare la forza fisica necessaria per poter tentare poi la fuga. Rudi era però frustrato da questa situazione, riteneva infatti che mentre i prigionieri che si erano organizzati stavano facendo un ottimo lavoro per migliorare le proprie condizioni, facevano ben poco per fermare il massacro di massa nelle camere a gas. Per questo, il suo obiettivo era scappare e avvertire il mondo di quanto stava accadendo e fare il possibile per fermare lo sterminio.

Lei spiega come nel dopoguerra la figura di Vrba risultasse in qualche modo dissonante rispetto all’immagine che la società attribuiva ai sopravvissuti. In cosa risiedeva il suo essere una figura «scomoda»?
Credo che Vrba sia stato una sorta di testimone «imbarazzante». Dico questo perché penso che anche oggi, quando i rari sopravvissuti sono diventati davvero molto vecchi, ci aspettiamo che in qualche modo ci consolino o ci confortino. Che dispensino una sorta di saggezza curativa, che ci facciano sentire meglio dicendoci che alla fine gli esseri umani sono buoni. Invece Rudi Vrba si è sempre rifiutato di farlo. Aveva piuttosto scelto di puntare un dito accusatore contro tutti coloro che non avevano trasmesso o dato seguito al rapporto che lui e Fred avevano redatto per lanciare l’allarme sul massacro in corso a Auschwitz. La conseguenza è stata che spesso Rudi non veniva invitato, al pari degli altri sopravvissuti, per intervenire durante le grandi iniziative relative alla memoria dello sterminio. Gli organizzatori erano preoccupati che lui – come mi ha detto una delle persone che ho intervistato per il libro – si «lasciasse andare alle accuse e alla rabbia». Penso che sia per questo che una volta disse a un produttore televisivo della Bbc: «Non rappresento di sicuro il cliché del sopravvissuto all’Olocausto».

A più di settant’anni dalla liberazione di Auschwitz il libro pone un quesito la cui risposta avrebbe potuto almeno in parte cambiare il corso della Storia: perché Vrba e Wetzler non furono creduti e gli Alleati non intervennero per fermare ciò che avveniva nei lager?
Credo che gli Alleati non bombardarono i binari ferroviari che conducevano i vagoni dei deportati ai campi di sterminio, vale a dire ciò che la leadership ebraica aveva chiesto loro facendo circolare il rapporto di Fred e Rudi, per diverse ragioni. Un’obiezione era di natura pratica. L’aviazione britannica e statunitense ritennero che sarebbe stata una «deviazione» dallo sforzo bellico. Erano convinti che il modo migliore per aiutare gli ebrei fosse sconfiggere Hitler. In quella scelta emergeva però anche un certo grado di pregiudizio. Non sempre si dava credito ai resoconti di fonte ebraica sugli omicidi che avvenivano nelle zone controllate dai nazisti, si pensava che gli ebrei esagerassero. Negli archivi di Londra e Washington ho visto documenti che indicano scetticismo nei confronti delle prove fornite dagli ebrei. I governi dei due Paesi erano riluttanti a far pensare ai loro cittadini che stavano combattendo Hitler per questo. I leader temevano che ci sarebbe stato un contraccolpo verso l’impegno bellico se la gente avesse pensato che lo si faceva per salvare la vita degli ebrei. Per tutte queste ragioni gli alleati non hanno bombardato quei binari. E non posso fare a meno di credere che – dato che nella primavera del 1944 circa 15mila ebrei venivano assassinati ogni giorno ad Auschwitz – se le linee ferroviarie fossero state interrotte anche solo per una settimana, o per un mese, un numero enorme di vite sarebbero state risparmiate.