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Rotterdam e il marxismo cosmico

Rotterdam e il marxismo cosmico

Cinema All'International Film Festival della città olandese Alexander Kluge, tra gli altri, ha presentato il suo ultimo lavoro, «Cosmic Miniatures», e la regista romena Alexandra Gulea il suo «Maia – ritratto con mani»

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 10 febbraio 2024

Navigare all’interno dell’oceanico programma dell’Iffr (International Film Festival Rotterdam) costringe a dotarsi di una bussola, o a individuare approdi che anche solo provvisoriamente offrano la possibilità di rifocillarsi, a meno di non lasciarsi trascinare dal flusso della corrente (che trascina nell’indistinto, senza che si riesca davvero a scoprire qualcosa, a creare un legame, una relazione con le cose che scivolano davanti ai nostri occhi onda dopo onda), accettando l’ipotesi del naufragio.

Seppure la direzione di Vanja Kaludjercic abbia marcato una sua differenza rispetto ai suoi predecessori, che in qualche modo continuavano (felicemente) a seguire quel cinema d’autore eccentrico che Hubert Bals ha proposto dagli esordi del festival, 53 anni fa, Rotterdam rimane il porto dove ancora si possono incontrare cineasti ormai fuorimoda, come, per esempio, Alexander Kluge, che qui ha presentato il suo ultimo lavoro, Cosmic Miniatures, nella sezione Harbour che ha ospitato anche, tra molti nomi poco o per nulla conosciuti, Elegies di Ann Hui, One Last Bloom di Takahisa Zeze, Makbetamaximus di Khavn o il notevole The Waste Land dell’olandese Chris Teerink (sofisticato esperimento anti-poetico da T.S. Eliot).

Alexander Kluge, classe 1932, studi in giurisprudenza (leggendario il suo intervento legale in aiuto di Zelimir Zilnik accusato in Germania di terrorismo per il suo film Paradies negli anni della Raf) prima di diventare, nel 1958, assistente di Fritz Lang sul set di Il sepolcro indiano e iniziare a far cinema. È uno dei più accesi promotori del Manifesto di Oberhausen nel 1962, insieme all’amico di una vita Edgar Reisz, oltre che capofila del Junger Deutscher Film.

Nel 1968 vince il Leone d’oro a Venezia con Artisti sotto la tenda del circo: perplessi. Nei primi anni ’70 realizza alcuni film di fantascienza realizzati per la televisione con oggetti domestici, dove sperimenta il gioco e l’ironia dialettica che più tardi daranno magnificamente corpo ai suoi lavori televisivi (auto-prodotti), fino al folle e geniale progetto Nachtichten aus der ideologischen Antike. Marx – Einsestein – Das Kapital (della durata di 10 ore) presentato proprio a Rotterdam nel 2010.

Cosmic Miniatures prosegue quel percorso, piuttosto atipico e spericolato negli anni in cui ha iniziato, dove il cinema si intreccia alla filosofia, alla musica, all’illustrazione fumettistica, al linguaggio spurio e posticcio della televisione e della grafica elettronica con cui ha osato molto (e che forse gli è valsa l’impopolarità negli ambienti cinematografici d’autore, a partire da quelli festivalieri canonici, con rare eccezioni).

Lo prosegue, quel percorso, sperimentando un programma di Intelligenza Artificiale sviluppato per la ricerca medica (lui sempre così azzardato e pioneristico nell’uso delle nuove tecnologie), spingendo al limite del Kitsch la creazione di immagini (per le quali, viene da pensare, avrebbe dovuto spendere un patrimonio in diritti per accedere a fonti di cui è riuscito invece a trovare avatar beffardi, che alimentano piuttosto la sua spericolata e sfrontata ironia).

Basti pensare al capitolo dedicato a Laika (il primo cane mandato nello spazio dai russi prima di Gagarin) e agli indomiti gatti cosmici, simbolo beffardo dello sfruttamento e della rivolta (immaginaria, o meglio delle immagini) che il film propone, nel suo marxismo ironico applicato alle leggi della conquista e della conoscenza del cosmo.

Kluge in qualche modo (in tutti i modi, verrebbe da dire) rifiuta l’immagine ’reale’, o l’illusione dell’immagine realista a cui tanto cinema recente si aggrappa, per agire – chiamando in causa Florenskij – attraverso la dimensione simbolica delle immagini: «Come è noto, a partire dal Rinascimento e sin quasi ai nostri giorni, lo schema della storia dell’arte e della storia della cultura in generale resta sempre invariabilmente lo stesso, ed è per giunta incredibilmente semplice.

A suo fondamento sta una fede incrollabile nel valore assoluto, nella perfezione ultima e, per così dire, nella canonizzazione e quasi nell’assunzione in un ambito metafisico di quella che in fondo altro non è se non la civiltà borghese del XIX secolo, cioè l’orientamento kantiano, anche se poi non deriva direttamente da Kant. In verità, se c’è un caso in cui si può parlare di sovrastrutture ideologiche che si innestano sulle forme economiche della vita, è proprio quello degli storici della cultura del XIX secolo, che credevano ciecamente nell’assolutezza dello spirito piccoloborghese e valutavano la storia universale in base alla vicinanza delle sue manifestazioni a quelle della seconda metà del XIX secolo.

E questo vale anche per la storia dell’arte: tutto quanto è simile all’arte di questo periodo, o si muove nella sua direzione, viene considerato positivo; tutto il resto non è altro che decadenza, ignoranza e barbarie. Alla luce di una simile scala di valori, diventano perfettamente comprensibili le lodi entusiastiche che spesso sfuggono di bocca persino a storici del tutto degni di rispetto: «assolutamente attuale», «non avrebbero potuto fare di meglio neppure allora», e subito si precisa un anno vicino nel tempo al periodo in cui viveva lo storico in questione.

In effetti, per chi crede nella contemporaneità, è inevitabile anche avere piena fiducia nei propri contemporanei, esattamente come succede per i provinciali della scienza, profondamente convinti che in ambito scientifico possa esistere un libro che debba essere «riconosciuto» alla stregua di «verità definitiva» (come se in tale ambito ci fosse un qualche concilio ecumenico per la formulazione di dogmi)». (Pavel Florenskij, La prospettiva rovesciata) Le parole scritte cent’anni fa dal grande monaco e filosofo russo, ci aiutano a ri-collocare ’la prospettiva’ del cinema di Kluge, che rifiuta l’illusionismo dato da un certo realismo, agendo su una dimenasione simbolica molto moderna (anche se Florenskij direbbe piuttosto «molto antica»), che passa per il montaggio, per una moltiplicazione dei punti di vista e delle linee di fuga, per il contrasto conflittuale delle immagini, per uno straniamento che sicuramente parte da Brecht per andare oltre, per parlare al presente con gli strumenti tecnici del presente, senza mai perdere la sua fenomenale ironia e la sua curiosità.

È un cinema didattico il suo, non esattamente nel senso di Rossellini: in lui è la dimensione del gioco a stabilire i confini del campo e gli sconfinamenti disciplinari; le responsabilità di chi guarda e le intenzioni di chi sperimenta prendono una piega meno rigida, più ondivaga, più leggera (anche e soprattutto quando affronta temi ’pesanti’, come in questo caso le leggi del cosmo). Se si mettessero insieme tutti i suoi film realizzati almeno dalla metà degli anni ’80 a oggi avremmo la più imponente enciclopedia audiovisiva del nostro tempo.

Kluge pratica anche una certa idea di avanguardia (ancora) possibile, in una contemporaneità dominata dall’aderenza cieca alle regole del gioco del sistema a cui quasi tutti vogliono partecipare, quelle dello spettacolo disintegrato (dove a noi resta il ruolo di schegge, impazzite). Da una parte Marker, dall’altra Debord, entrambi autori di un corpo a corpo con le immagini fisse (come per altro verso, per rimanere alle visioni avute qui, The Waste Land di Teerink, che in qualche modo costituisce un analogico contro-campo a Cosmic Miniature).

Anche in Kluge le immagini fisse, con cui è realizzato tutto il film, producono un paradossale movimento vertiginoso, un movimento politico nel campo dell’arte, marxiano più che marxista, dove l’alienazione viene sovvertita incarnandola, praticandola nell’apertura di tutti i campi (da gioco) e di tutte le possibilità prospettiche, realizzando il cinema meno ideologico che si possa immaginare, e il più ricco di idee vive.

Alexandra Gulea, gli Aromuni e la Romania

L’origine di un popolo, di una cultura, è la sovrimpressione dei passaggi, dei paesaggi, degli elementi plurimi che ha attraversato, nel tempo e nello spazio. È la loro contaminazione, il loro mescolarsi sino al punto da confondere i punti di partenza, che molto raramente sono monolitici (specie nel continente europeo), essendo frammentati e disseminati nell’evolversi storico, costituendone il divenire, il farsi radice.

Gli Aromuni vengono da quelli che oggi sono territori che appartengono all’Albania, alla Grecia, alla Bulgaria e alla Romania, e nel tempo sono migrati attraverso la parte centro-meridionale dei Balcani stabilendosi infine in Romania. È da questa cultura che viene Alexandra Gulea, figlia del regista Stere Gulea, diplomata all’Ecole Nationale Supérieure des Beaux Arts di Parigi nel 1997, pittrice e cineasta: ha all’attivo vari cortometraggi e due lunghi, tra cui il suo ultimo, Maia – Portret cu maini (Maia – ritratto con mani) presentato in anteprima a Rotterdam. Un ritratto della nonna, omonima, che funge da specchio e da prisma.

Specchio dell’Alexandra che fa un film per misurare la propria eredità e ritrovare una propria identità (attraverso la lingua della nonna, che parla esclusivamente aromuni), e prisma di un secolo di storia di un popolo (gli Aromuni appunto) e di un paese (la Romania) che si sovrimprimono nell’impossibilità di tracciare linee di demarcazione nette, in chiave squisitamente antinazionalista, senza proclami, attraverso un discorso in cui a parlare sono le immagini e le memorie, quelle del repertorio personale di famiglia e quelle del repertorio storico, mosso da una sensibilità e un’intelligenza tutte femminili, dolcemente penetranti, dove gli elementi (i sogni, i simboli, le cose, i volti, i canti) vengono portati in campo sentimentalmente, empaticamente, in una relazione intima, la cui forza sta proprio nel suo esibirne la fragilità, la sua apertura, la sua capacità rigeneratrice.

La scelta di una donna semplice da cui partire per raccontare una cultura ha in se qualcosa di radicale e rivoluzionario rispetto alla tradizione storica a cui siamo stati abituati fino all’inizio del XX secolo, quando alcune figure chiave (basti pensare a Marc Bloch…) aprirono nuovi sentieri di ricerca, ma che la cultura contemporanea sembra aver dimenticato, ritornando alle istanze verticistiche del XIX secolo (l’ossessione spettacolare per i «leader» di turno o per i monarchi inglesi, per esempio, ne è uno dei più evidenti e inquietanti segnali).

La scelta di Gulea ci aiuta per esempio a cogliere più precisamente qualcosa di reale in quella storia, una verità che spesso viene filtrata dalla dinamica dei giochi di potere (quasi esclusivamente maschili), di scontro duale, di prepotenza identitaria. In questo senso Maia – Portret cu maini ci mostra come il conflitto sia uno stratificarsi, un sovrimprimersi di molti elementi, di immagini che non vediamo del tutto, che non possiamo vedere o che il film contrasta con le proprie, che mostrano un conflitto meno ovvio, meno banale, più profondo, attorno alla questione dell’identità, dell’eredità, che comporta un confronto e un accoglimento di forze e dinamiche anche dolorose, anche traumatiche, ma che rappresentano la ricchezza di una cultura, la sua vivacità, la sua capacità di trasformazione, di messa in discussione.

Il film incarna tutto questo nella propria forma, tutt’altro che canonica, attraverso un lavoro di ricerca, di scavo e di costruzione, senza lasciarsi ammaliare da facili giochi estetici o intellettuali, rimanendo attaccato alla necessità fortissima di trasformare e connettere gli elementi da cui attinge, restituendone la dignità e il senso, attraverso un uso della sovrimpressione che fa pensare a Jean Vigo e a Jean Epstein, per esempio, più che a Godard (quello delle Histoire(s) du Cinema).

È così che il film di Gulea avanza, a suo modo leggero, come il vestito di velluto che la nonna di Alexandra ha ricevuto per il matrimonio e che ha lasciato in eredità alla nipote, facendolo in qualche modo indossare al film, portandolo in giro, e filmandolo lungo il sentiero che immaginiamo l’Alexandra di inizio ’900 abbia percorso a piedi, restituendone una visione, una possibilità.

Ci si mette un po’, almeno metà film, per capire che quel vestito che vediamo ’camminare’ ripreso da dietro non contiene alcun corpo, ma è il fantasma che permette al film di avanzare, a suo modo scespiriano, di svelare le ragioni politiche che hanno portato il padre della nonna a emigrare verso l’attuale Romania, morto per difendere i diritti dei più deboli di fronte alla barbarie nazionalista.

Memoria personale quindi e memoria collettiva sovrimpresse e inscindibili. Identità, territorio, migrazioni (anche estetiche: dall’arte, al teatro, al cinema). Gulea ci riporta qualcosa di straordinariamente ampio, che tocca per esempio uno dei grandi temi con cui tanta parte di umanità ha a che fare, arrivando a scatenare guerre e persecuzioni: l’origine. Svelando come questa origine sia sempre impura, come il cinema. E impura è l’arte di Gulea, il suo cinema alla ricerca di una immagine originaria (la nonna, di cui porta il nome) che tuttavia rilancia il mistero (questo si, originario) della nascita non solo di ogni immagine, reale o simbolica, ma della funzione che le immagini hanno nella nostra cultura, quella personale come quella collettiva (poiché le due dimensioni non sono scindibili, non sono separate come vorrebbe farci credere una certa propaganda economica).

Maia – Portret cu maini ci lascia alla fine con più domande di quante ne avevamo, lasciandoci la responsabilità di formulare delle risposte possibili (mutevoli, aleatorie, provvisorie, aperte).

Ci invita a vedere l’apertura che il sistema di potere della trasmissione del sapere cela, perché nell’apertura di campo il dominio è costretto a mettersi in gioco e non può trincerarsi dietro verità acquisite o formule di facile utilizzo. Alexandra Gulea, in prima persona, si mette in gioco e gioca, col cinema, una partita a perdere, senza la paura di rimanere nuda di fronte al quel gioco che chiamiamo realtà.

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