Rossana Rossanda, amicizie richiamate a sé nell’esercizio dell’addio
Novecento italiano Recuperando ruolo e funzione del testimone, Rossana Rossanda scrive cinquantadue ritratti, fra il giugno del 1971, in morte di György Lukács, e il dicembre del 2011 per la scomparsa di Christa Wolf, sua diretta interlocutrice: Volti di un secolo, a cura di Franco Moretti, da Einaudi
Novecento italiano Recuperando ruolo e funzione del testimone, Rossana Rossanda scrive cinquantadue ritratti, fra il giugno del 1971, in morte di György Lukács, e il dicembre del 2011 per la scomparsa di Christa Wolf, sua diretta interlocutrice: Volti di un secolo, a cura di Franco Moretti, da Einaudi
Come guardarsi in uno specchio e trovarlo ogni volta disertato, vuoto: non del proprio volto ma di quello di altri, che nel tempo lo hanno avvicinato e, di riflesso, illuminato: viene da un senso primordiale della politicità della vita, dalla drammatica cognizione della parzialità di ogni principium individuationis, l’arte ritrattistica di cui Rossana Rossanda fu maestra e a cui si attaglia alla maniera di un emblema il verso di un poeta, Eugenio Montale, secondo cui occorrono troppe vite per farne una.
Non che Volti di un secolo Il Novecento in 52 ritratti (Einaudi, «Gli struzzi», pp. 242, € 18,00) dia l’immagine di una ricomposizione o, meno che mai, di un irenico bilancio di sé e del proprio percorso; al contrario, mostra i segnavia di un tracciato umano e politico (i due termini sono per Rossanda, alla lettera, inscindibili) che non dissimula smarrimenti, infrazioni, traumi veri e propri: Franco Moretti, che firma la curatela del volume e la nitida introduzione, individua l’intento di Rossanda nella necessità di «capire, spiegare, non infierire, non dimenticare» laddove scrivere equivale a ritrovare le persone perdute. Lo testimonia appieno la selezione di questi ritratti, comparsi sul «manifesto» fra il giugno del 1971, in morte di Gyorgy Lukacs, filosofo di un bolscevismo ereditario della grande cultura borghese, e il dicembre del 2011 per la scomparsa di una diretta interlocutrice, Christa Wolf, nel cui lascito rimane una duplice e drammatica interrogativa sulla condizione femminile nelle società del cosiddetto socialismo reale, divenute dopo 1989, di mercato.
Si tratta per lo più di necrologi che tuttavia, per la capacità di dedurne sempre un tratto condiviso e perciò autobiografico, si traducono in commemorazioni. Alle grandi figure politiche (Salvador Allende, Mao Zedong oppure, tra Pci e Psi, Umberto Terracini, Riccardo Lombardi, Enrico Berlinguer, Giorgio Amendola, Camilla Ravera), ai suoi personali compagni di via (su tutti l’indimenticabile Luigi Pintor, deuteragonista di una vita), agli amici, ai volti di militanti, sindacalisti e giornalisti (Eugenia Chiostergi, Carla Casalini, Mauro Rostagno, Bruno Trentin, Aldo Natoli) si affiancano ritratti di filosofi, di scrittori e di artisti che Rossanda sentì sempre iscritti nel vivo della vicenda del movimento operaio, come se la storia del comunismo fosse per tutti decisiva, dirimente alla pari di un test secolare: è il caso, per esempio, di Picasso (in clausola definito «troppo grande e troppo utile al Partito comunista francese») di Pier Paolo Pasolini, Franco Fortini, Renato Guttuso (che «non concesse mai nulla del credo artistico che aveva scelto»), del musicista Luigi Nono di cui fu amica e grande estimatrice fin dal dopoguerra e, infine, di Herbert Marcuse che rammenta con istintiva simpatia riconoscendogli di avere sommato «alla lezione dei suoi maestri tedeschi e alla denuncia degli amici americani una carica utopica che essi non avevano». Un vertice è rappresentato dai due necrologi a distanza di Jean-Paul Sartre (1980) e di Simone de Beauvoir (1986), una personale cerimonia degli addii dove il ricordo di un’amicizia che fu intima e di continuo rinsaldata tra Roma e Parigi si intride al sentimento del tempo che ne colora retrospettivamente i nessi e i problemi d’ordine intellettuale e politico: di Sartre dice Rossanda che scriveva vivendo, «una mente che afferrava il mondo e vi si dibatteva», mentre di de Beauvoir osserva che per effetto speculare «aveva vissuto sempre in un flusso, quello della storia che tutti ci trascina».
È difficile stabilire una preferenza perché tale è l’intensità, la bellezza di questi ritratti che si vorrebbe leggere anche quelli esclusi dalla selezione – basterebbero i nomi di Palmiro Togliatti, Ingmar Bergman, Louis Althusser – ma comunque segnalati da Doriana Ricci che, con abnegazione, si occupa delle carte di Rossanda. La cui scrittura è sobria, netta, i periodi ampi e ricchi di inversioni come è norma per chi ragiona in termini dialettici mentre la tinta del dettato converge su un ideale biancoenero, il colore del ricordo. L’arte di Rossanda splende nei flash e nel conio degli aforismi critici per cui, ad esempio, la scrittura di Natalia Ginzburg è «decisa e breve, non so se più pietosa o severa», l’assillo marxista di Fortini è di uno che «con i comunisti non poteva stare ma neanche senza di loro», la caratteristica di Giorgio Amendola nel suo essere «fazioso e uno di fazione dentro un partito rigidamente centralizzato», infine il volto di Maurizio Flores (critico militante, una ragazzo troppo presto perduto) specchio di «una società in lotta che era già un’altra vita». Rossanda né si intromette né dissimula la propria presenza ma ne recupera ruolo e funzione nel beneficio del testimoniare: lo si vede, per esempio, nel lungo articolo in morte di Louis Aragon (1982) che vale un’autobiografia allegorica e le dà l’occasione di tornare all’incontro di venti anni prima, da inviata del Pci, con il maggiore poeta lirico di Francia nonché aedo ufficiale del Partito più rigorosamente stalinista di tutta l’Internazionale. Avvenne in rue de Varenne, nella magione avìta di Aragon, messinscena regale e confacente a un individuo che unisce il genio puro della poesia al greve dogmatismo dell’«Humanité» e parla senza occhi per quella straniera, come un disco preregistrato. Rossana Rossanda ammutolisce, si sente via via rimpicciolire, poi si alza e pian piano retrocede fino alla porta e alla tromba delle scale, senza poter sottrarsi a quello sguardo azzurro e vitreo, a quella parola melodiosa e implacabile che non ammette dubbi o tanto meno repliche, fino a ritrovarsi all’aperto: soltanto lì può respirare e andarsene per la sua strada, finalmente sua.
Scheda: la letteratura e la vita per unire in sodalizio la narrativa e la saggistica
Uno strumento utile per avvicinare la fisionomia umana e politico-intellettuale di Rossana Rossanda è approntato dalla germanista Maria Fancelli, Rossana Rossanda Il diciassettesimo tasto (Edizioni Clichy, «Sorbonne», pp. 125, € 7,90) e scandito tra la cronologia (alla cui base c’è l’autobiografia intitolata La ragazza del secolo scorso, Einaudi 2005) e la bibliografia ragionata, non escluso un breve inserto di fotografie. In particolare Fancelli, oltre a fornire la lista dei volumi firmati da Rossanda (una ventina di titoli dall’iniziatico e purtroppo introvabile L’anno degli studenti, edito da De Donato in pieno 1968), valorizza due aspetti che nel senso comune sono nascosti dall’immagine della dirigente del PCI e della fondatrice del «manifesto», cioè la formazione accademica di storica dell’arte e l’attività di traduttrice dal tedesco, una lingua che Rossanda conosceva essendo quella che parlavano in casa suo padre e sua madre. Fancelli sottolinea l’importanza degli studi all’Università di Milano, fra guerra e immediato dopoguerra, alla scuola di Matteo Marangoni (teorico del cosiddetto «purovisibilismo») e specialmente di Antonio Banfi, figura decisiva per la scelta di entrare nella Resistenza, maestro di marxismo inteso quale umanesimo critico le cui lezioni, scriverà la sua allieva, «erano un’avventura favolosa, una sorta di navigazione tra i marosi cui ci gettava, stolidi e incolti, a diventare grandi senza salvagente»; dall’altro la passione letteraria che induce Rossanda prima a tradurre per Banfi gli Aforismi sull’arte di Konrad Fiedler poi, dagli anni Novanta, a doppiare alcune opere dell’amatissimo von Kleist (La Marchesa di O… Il principe di Homburg, Pentesilea) e la bellissima autobiografia del suo compagno e marito, K. S. Karol, Solik. Peripezie di un giovane polacco nella Russia in guerra (Feltrinelli 1985). Di una antica attenzione alla letteratura è peraltro ulteriore testimonianza l’uscita di una bella e corposa antologia, Aperte lettere. Saggi critici e scritti giornalistici (a cura di Francesco de Cristofaro, nottetempo, pp. 288, € 19,00), che annovera, fra i molti altri, contributi su Stendhal, Dostoevskij, Emily Dickinson, Virginia Woolf, Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e una intera sezione su colui che di Rossanda fu tanto un interlocutore quanto uno scomodo compagno di via, Franco Fortini. Ma basterebbe menzionare, quale esempio esaustivo, la limpida introduzione a un malnoto e tuttavia stupendo racconto di Thomas Mann, L’inganno (un testo terminale, del ’53, proposto da Marsilio nel ’92), laddove Rossanda dà pieno consenso a un’arte che di continuo interroghi sé stessa e proponga una combinazione in cui narrativa e saggistica si diano infine come una cosa sola. (ma.ra.)
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