Mentre guarda il mare, di spalle, immersa in un bianco e nero rivisitato e d’antan. Coi capelli mossi, tirati stretti sulle tempie e legati in una coda. (Sembra la stessa silhouette, la stessa postura). Mentre si volta piano, in un accenno di profilo (sembra il suo, ma ogni istante muta, come il vento che accarezza la tenda sul balcone). Mentre si accende una sigaretta o aggrotta la fronte. Mentre il suo viso è inondato da un sorriso.

Può accadere di ritrovare – rediviva? – un’immagine perduta, per di più tanto nota e desiderata? Forse ci si sentirà straniati, come Nino (Mastroianni) davanti alle apparizioni di Anna (Romy Schneider), da lui amata nel passato e ora – sebbene morta da alcuni anni – sorprendentemente rincontrata: così identica e così dissimile. Può essere davvero lei? Si chiedeva in Fantasma d’amore di Risi (da un romanzo di Mino Milani).

Così, nell’incipit di Drei Tage in Quiberon (3 Days in Quiberon, 2018), di Emily Atef – rosa perturbante tra le Wild Roses della sezione dedicata alle registe tedesche nella 35ma edizione del Trieste Film Festival – c’è, appunto, una donna di spalle, sul mare, in inverno nella località bretone del titolo.

E c’è un albergo bianco con terrazzini tutti uguali – una nota catena di hotel – col nome seguito dalla parola diététique, a dire che lì gli ospiti si ritirano a depurarsi da tutto. In quell’albergo si reca una donna austriaca di nome Hilde, che semplicemente chiede della stanza di Romy Schneider, sua amica di infanzia.

Ma prima ancora, alla base del film, c’è un’intervista che, in quei fatidici giorni a Quiberon, l’attrice concede al giornalista Michael Jürg e al fotografo Robert Lebeck, poi pubblicata da Stern il 23 aprile 1981 (ossia poco più di un anno prima della sua morte, nel maggio ‘82, quando Schneider, nata a Vienna, non ha ancora 44 anni, e pochi mesi prima della morte del figlio). Sarà Lebeck stesso, amico dell’attrice, ad aprire alla regista il suo archivio con le 580 foto scattate in quei giorni.

L’impianto è dunque teatrale, agito per lo più nelle stanze diafane dell’albergo dove a madame Schneider non è consentito mangiare zucchero, sale, burro, olio, pane (né ovviamente alcolici), o nella camera dove – registratore orizzontale e vino sul tavolino basso – con l’accompagnamento protettivo di Hilde, si svolge, in due round successivi, la partita a quattro dell’intervista.

Salvo l’irrompere di una cameriera: una Vicky Krieps non ancora protagonista come in More than ever della stessa Atef, o ne Il corsetto dell’imperatrice di Barbara Albert o in Ingeborg Bachmann A Journey into the Desert (2023), viaggio sulla scrittrice poeta austriaca firmato da Margarethe von Trotta e tra le Wild Roses (ci sono anche Maria Schrader, Maren Ade…).

Tornando quindi all’intervista… Jürg, incalza Schneider con domande che attentano ai nuclei più privati della sua persona: se ha dovuto compensare la mancata fama della madre (Magda Schneider, attrice a sua volta), se le è mancato non avere accanto a sé il padre, se è stata manipolata dalla madre (che mai ha fatto i conti con i suoi trascorsi con Hitler), dai registi, dagli uomini della sua vita, se è in bancarotta, cosa prova quando suo figlio legge le cose terribili che i giornali scrivono su di lei, se riuscirà a prendersi una pausa e a stare coi suoi ragazzi, se sa che per i tedeschi nulla conta di quello che ha fatto nel cinema se non Sissi (a Trieste anche Sisi & Ich di Frauke Finsterwalder).

Romy Schneider – ovvero l’attrice Marie Bäumer – in apparenza docile, risponde punto per punto anche quando Hilde vorrebbe sottrarla a quello stillicidio di manipolazione, a un bicchiere dopo l’altro. Eppure questa Romy dal viso più scarno – che forse è rinata forse non è lei – in apparenza precipitata nel cliché di donna fragile consegnata ai suoi carnefici, tira bordate sui media e non solo: «Lo stupro verbale non è punito…. Non sono Sissi, non sono le donne che interpreto …. Da 14 anni in poi niente più scuola e gli adulti sempre a dirmi cosa fare…. In Francia mi offrono le parti che desidero…». E fuma, prorompe in una risata… fino a trovare il modo tutto suo per dire no al film che sta per girare.

La figlia Sarah e l’ex marito non si riconoscono in 3 Days in Quiberon. E questa loro posizione è insindacabile. Atef racconta di aver voluto rappresentare la complessità di una donna «semplice» (come nel film di Sautet), ma non la sua vittimizzazione, mai. Del resto Schneider/Bäumer controbatte a Hilde – cui la lega un’amicizia vera – che si fida dei due giornalisti e forse in questo sa vedere più lontano, sull’orizzonte del mare, su quella linea invisibile che il cinema oltrepassa, tra Carole Bouquet e Angela Molina: la stessa donna in Quell’oscuro oggetto del desiderio di Buñuel e Kim Novak: la stessa attrice che si tramuta in due donne in Vertigo di Hitchcock. Ecco, con quel trench, il foulard legato sotto il mento, gli occhiali da sole, Schneider di Atef racconta che era sulle spalle del padre in una foresta, felice come nel finale a Parigi con la figlia piccola, mentre Lebeck, che le vuol bene, le scatta foto su foto, e mentre lei non sa se era in un sogno in un libro o in un film… Ma questo non importa.