Nella famosa «valigia messicana» di Robert Capa (che poi in realtà erano tre scatole zeppe di rullini e negativi, più di quattromila, affidate a un amico per salvarle dalle truppe tedesche, perdute e poi riapparse in Messico nel 1995 e, dopo varie peripezie, tornate a casa presso l’International Center of Photography di New York fondato dal fratello di Capa, Cornell) non si è trovata nessuna traccia della celebre fotografia del miliziano che muore in diretta, da decenni al centro di una controversia filosofica sullo statuto stesso della verità (visiva e narrativa).

L’immagine resterà ammantata nella sua aura misteriosa (tra l’altro, Capa asserì in più di una occasione di aver scattato alla cieca, mettendosi la macchina in testa, senza vedere nulla), ma in compenso si sono potuti sciogliere altri enigmi poiché molti negativi lì custoditi erano assegnati non solo a Capa o a David Chim Seymour, ma anche a Gerda Taro, riconsegnando alla luce della storia la sua figura, non più imbevuta unicamente di romanticismo ma «disegnata» da un netto profilo di indipendenza professionale. Sono sue, per esempio, quelle strazianti foto di un servizio nell’obitorio di Valencia: ci sono i corpi dei morti deturpati e abbandonati su freddi tavoli di marmo, ritratti in scorci estremi e tragici, mentre fuori il cancello della morgue – la «porta» che preannuncia gli inferi – si accalcano i vivi, parenti disperati alla ricerca del loro caro disperso, forse già cadavere.

Robert Capa, «La folla corre al riparo», Bilbao 1937 (© International Center of Photography

Alcune di quelle immagini – che, come afferma anche Monica Poggi, curatrice insieme a Walter Guadagnini della mostra presso Camera di Torino Robert Capa e Gerda Taro: la fotografia, l’amore, la guerra, sconfessano il pregiudizio dello sguardo femminile più «dolce» sulla realtà – sono esposte a chiusura di un percorso espositivo (costruito in un crescendo emotivo), nella stessa sala che presenta il bambino orfano con la zuppa (Taro) e la ragazzina sfollata raggomitolata su dei sacchi sporchi (Capa). Sono volti segnati dallo smarrimento, contornati da palazzi sventrati e città in macerie. E incarnano gli esiti dei conflitti bellici, una vera «propaganda di pace» che si riverbera anche su questo nostro presente affondato in un risiko crudele.

Gerda Taro, «Miliziane repubblicane si addestrano in spiaggia vicino a Barcellona», 1936 (© International Center of Photography)

In centoventi fotografie (molte descrivono le giornate dei miliziani e delle miliziane fra allenamenti sulla spiaggia, tragitti per raggiungere i luoghi caldi, ma anche la popolazione civile disorientata da allarmi e esodi forzati) si sfoglia l’album in bianco e nero di una vicenda esistenziale, sentimentale e altamente professionale che ha attraversato le vite di due allora giovanissimi fotografi politicizzati – una ragazza ebrea fuggita dalla Germania nazista, Gerta Pohorylle e un emigrato ungherese, Endre (poi francesizzato André) Friedmann. L’incontro avviene a Parigi nel 1934 e così si apre anche la mostra con scioperi, manifestazioni e la vittoria del Fronte popolare.

Poco dopo, cambiando i propri nomi in Gerda Taro e Robert Capa (si fingerà un americano facoltoso per accaparrarsi più lavori e, in effetti, l’escamotage funzionerà: lei, lavorando per un’agenzia fotografica, lo piazzerà sotto quelle spoglie romanzate) arriva l’occasione d’oro per testimoniare un presente denso di fermenti futuri: la guerra di Spagna, le città sotto le bombe, le comunità di scrittori antifascisti e resistenti (Gerda scatta e immortala Tristan Tzara, Anna Seghers, André Malraux a un convegno), le attese in trincea, il dramma collettivo.

L’avvento di macchine fotografiche compatte, che si potevano tenere comodamente in una mano, favorisce la «vicinanza assoluta» alla guerra, il loro sodalizio di coppia invera un nuovo modo di essere testimoni: sono loro, fra i primi, i reporter al fronte che condividono le trincee con i miliziani repubblicani, le corse degli attacchi, le camionette per gli spostamenti. E proprio una di queste sarà fatale a Gerda, che vi viaggiava attaccata al predellino esterno: speronata per errore da un cingolato «amico» durante una ritirata precipitosa, sarà l’ultima dimora mobile per la fotografa che, schiacciata, troverà la morte a soli 27 anni, nel luglio 1937.

In mostra, c’è anche quello che si presume sia stato l’ultimo scatto di Taro: una camionetta in fiamme durante la battaglia di Brunete. Capa sarà raggiunto dalla notizia a Parigi, ma tornerà in Spagna a finire il lavoro cominciato insieme (le loro foto venivano pubblicate da Vu, Life e Regards). L’anno successivo dedicherà a lei il libro Death in the making.

Gerda Taro fu seppellita con tutti gli onori al Père Lachaise, nell’area destinata ai militanti della Resistenza, il partito comunista pagò i funerali, Giacometti ornò la lapide, Neruda e Aragon recitarono l’orazione funebre ascoltati da una marea umana. Eppure il suo nome nel tempo sbiadì fino quasi a perdere i connotati (del suo incidente mortale resta un involucro di chewing gum che documenta l’accaduto con tanto di testo, esposto in una teca da Camera, e l’articolo che uscì su Life). D’altronde, Taro ebbe una carriera brevissima da fotografa e molti servizi, all’inizio, lei e Capa li firmavano insieme oppure non li firmavano affatto. A riportare alla luce la sua figura a tutto tondo, sarà una studiosa tedesca, Irme Schaber, con una biografia sulla rivoluzionaria con l’obiettivo puntato sulla guerra civile spagnola (in Italia per Deriveapprodi, 2007) e poi dieci anni dopo, nel 2017, a consacrarla nell’Olimpo delle reporter che hanno scritto visivamente la Storia sarà la scrittrice Helena Janeczek con il suo libro vincitore dello Strega La ragazza con la Leica (Guanda).

Capa sopravviverà alla sua compagna e avrà altre guerre da raccontare. Una, in Indocina, sarà fatale anche per lui quando, inavvertitamente, metterà un piede su una mina, saltando in aria. Era il 1954.