Rivolta contro l’austerity in Ecuador, Lenin Moreno decreta lo stato d’emergenza
Il "paquetazo" Le misure estreme, frutto dell’intesa tra governo del presidente "traditore" e Fondo monetario internazionale, prevedono tra l'altro tagli a salari, ferie, servizi e pensioni
Il "paquetazo" Le misure estreme, frutto dell’intesa tra governo del presidente "traditore" e Fondo monetario internazionale, prevedono tra l'altro tagli a salari, ferie, servizi e pensioni
Era solo questione di tempo perché il popolo ecuadoriano si ribellasse al governo di Lenin Moreno, il presidente “traditore” che, eletto dalle forze progressiste, ha poi sposato in pieno il programma delle destre: di fronte alle misure di austerity annunciate dal governo, neppure l’imposizione dello stato d’emergenza è bastata a mettere un freno alle proteste.
Già l’accordo siglato a marzo con il Fondo monetario internazionale, per un prestito triennale di 4,2 miliardi di dollari a favore del paese (e un’erogazione immediata di 652 milioni di dollari) non lasciava presagire nulla di buono. L’allora presidente dell’Fmi Christine Lagarde aveva in quell’occasione promesso un futuro tutto rosa agli ecuadoriani: un’economia più dinamica e sostenibile, la creazione di nuovi posti di lavoro, un aumento della spesa sociale a favore dei settori più vulnerabili. Promesse mai mantenute in nessun paese al mondo in cui l’Fmi abbia deciso di intervenire. Non a caso, una delle prime misure del precedente presidente Rafael Correa, ben prima che iniziasse l’involuzione autoritaria ed estrattivista del suo governo, era stata proprio quella di rompere con l’organismo.
Cosa abbia in realtà comportato quell’accordo è risultato chiaro con l’annuncio, mercoledì scorso, di un pacchetto di misure che prevede, tra l’altro, l’eliminazione dei sussidi statali ai combustibili e la liberalizzazione del prezzo della benzina e del diesel – da cui, secondo gli oppositori, deriverà l’aumento del costo dei trasporti e di ogni tipo di beni e servizi -; la riduzione del 20% dei salari degli impiegati pubblici e l’accorciamento delle loro ferie da 30 a 15 giorni, il taglio delle pensioni. Il tutto, ha spiegato il presidente, per creare «più lavoro, più imprese e migliori opportunità».
All’immediata rivolta popolare contro il paquetazo – condotta da forze politiche, sociali, indigene e studentesche e accompagnata da uno sciopero generale dei trasporti con conseguente paralisi delle vie di comunicazione – Moreno ha risposto proclamando lo stato d’emergenza, solitamente applicato in casi di calamità pubblica, disastro naturale o conflitto interno, per la durata addirittura di 60 giorni, durante i quali verrà sospeso l’esercizio di diritti come la libertà di associazione e di riunione. Una decisione adottata, ha detto, «per garantire l’ordine e la sicurezza cittadina e controllare quanti intendono provocare il caos». «Chi viola la legge sarà arrestato», ha avvertito, senza peraltro intimidire i sindacati del settore dei trasporti e le associazioni indigene, che, al contrario, hanno annunciato uno sciopero generale per i prossimi giorni.
Il ritorno nel paese della dittatura del neoliberismo conferma così in pieno tutti i timori di chi, di fronte ai primi contraddittori passi di Moreno – inizialmente disposto a dialogare con i movimenti indigeni ed ecologisti che Correa aveva definito come i più grandi nemici della Revolución Ciudadana -, prevedeva che sarebbero state altre forze, quelle legate ai settori imprenditoriali e finanziari, a incidere maggioramente sulle scelte economiche, in principio rimaste molto vaghe, dell’attuale governo.
Ma a chiarire da che parte stesse realmente Moreno erano bastate le successive decisioni in politica estera, con il ritiro dell’Ecuador dall’Alba, l’innovativa Alleanza bolivariana per le Americhe, e poi persino dall’Unasur, l’Unione delle nazioni sudamericane, con il processo di incorporazione nel blocco conservatore, di chiaro stampo neoliberista, dell’Alleanza del Pacifico e con l’adesione alla crociata contro il Venezuela di Maduro all’interno del Gruppo di Lima.
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