Ritmi vitali dell’Amazzonia, Sheroanawe
Incontro L'artista yanomami e i suoi galleristi, Luis Romero e Melina Fernández Temes
C’è voluto molto tempo a Sheroanawe per trovare il proprio nome. «Un giorno ho pensato che non potevo che chiamarmi Sheroanawe». Vale a dire, semplicemente, colui che proviene da Sheroana, piccola comunità nell’Alto Orinoco, cuore dell’Amazzonia venezuelana, dov’è nato e vissuto. Fino a quel momento aveva un altro nome, castigliano e cristiano, che lui non rivela come se quella parola si fosse già persa nel profondo della selva. Mentre lo racconta, Sheroanawe Hakihiiwe non mostra alcun segno di tristezza né di emozione. Lo dice perché, nella visione del reale della sua cultura yanomami, le dimensioni del tempo possono convivere, l’ancestrale e il contemporaneo, e i mondi si sovrappongono. Quest’uomo imperturbabile, sensibile a qualunque vibrazione, che elabora taciturno e curioso, è uno dei migliori artisti latinoamericani, oltre che uno dei pochi artisti yanomami a conquistare gallerie ed eventi d’arte in giro per il mondo.
A Venezia, dove lo incontriamo assieme a Luis Romero e Melina Fernández Temes, i galleristi di Abra Caracas con cui ha stabilito un profondo legame, Sheroanawe è stato chiamato dalla curatrice della Biennale d’arte Cecilia Alemani e per Il latte dei sogni ha portato una serie di suoi lavori che si trovano esposti all’Arsenale. Sono dodici fogli di carta artigianale di fibra di morera e tre lavori di carta di canna da zucchero e cotone. I disegni sono una nenia seriale di figure che sembrano simboli e astrazioni, ma se chiedi a Sheroanawe sono solo immagini «realistiche, reali, così come si vedono e si sentono».
La sua scrittura visiva si rifà a «una tassonomia contraria all’ambizione classificatoria della tradizione occidentale – come spiega la curatrice colombiana Catalina Lozano – Questi disegni si riferiscono al contesto e all’azione di un organismo: invece di rappresentarlo, Sheroanawe evoca e ricrea ritmi vitali». Quello che appare sono un mondo, una mappa e un romanzo assieme: è la selva amazzonica vulnerabile e superba, sezionata nei dettagli viventi, libellule e radici, il movimento dei corpi celesti, la coda della scimmia, la radice di una pianta e lo spirito delle vipere che ci si dipinge sul corpo per proteggerci, la notte che scende e il cielo che annuncia infermità.
Classe 1971, Sheroanawe di sé racconta di essere «cresciuto con i racconti di mia madre e dello sciamano, imparando a vivere nell’Amazzonia, osservando i dipinti rituali sui corpi e sulle canaste. Ci si siede e si apprende ascoltando». Dai salesiani invece ha imparato a leggere e scrivere e da Laura Anderson Barbata ha assimilato la maestria nel fare la carta con fibre vegetali. L’artista messicana è arrivata nel 1990 nell’Amazzonia venezuelana con un progetto di comunità e ci è tornata più volte. È là che si sono conosciuti: dieci anni dopo hanno realizzato assieme un libro, “Shopono” che poi è il nome delle tipiche case comunitarie yanomami e il libro ne racconta la genesi, che affonda nella cosmovisione e nel mito dei gemelli Omawe e Yoawe.
A Caracas Sheroanawe è arrivato per una residenza d’arte nel 2004, alla Fundación La Llama, dove ha scoperto la biblioteca del giardino botanico e gli archivi sulla terra. «Tornato al mio villaggio, ho chiesto a mia madre di aiutarmi a ricostruire l’inventario di simboli e disegni e ho riempito i miei quaderni di bozzetti». Lo guardavano sorpresi gli altri della comunità, ci dice, così come ora faticano a immaginare che finiscano esposti in una mostra.
Luis Romero ricorda la prima esposizione nel 2010 con i disegni di Sheroanawe: «Quando li ha visti tutti installati sulle pareti ha esclamato: “Ah! questa è una mostra. Allora la chiameremo Oni tepe komì”, tutti i disegni sono qui assieme». In quella occasione, continua Romero, «abbiamo esposto più di 30 opere realizzate su una magnifica carta di fibra di palma amazzonica». Tra i due è nato un sodalizio che dura tutt’ora e li ha portati a Toronto, a Bogotà, a São Paolo, a Venezia appunto e ora a Lilla alla Fondazione Cartier (Les vivants, fino al 2 ottobre).
«Passo sei mesi a Caracas e sei al mio villaggio – racconta Sheraonawe – Ci metto settimane per arrivare, tra bus, aereo e canoa. Ho bisogno di stare nella mia comunità, la mia Amazzonia». Sua madre non c’è più, ma ricorda che «la osservava dipingere con un pezzetto di legno bruciato. È stata lei a dirmi: fallo anche tu, noi veniamo da qui». Ora le opere di Sheroanawe non ricalcano più i disegni rituali sui corpi e le canaste, hanno preso un altro registro che si connette con il contemporaneo e lo riempie di senso: «Non sto dimenticando, sto usando la mia cultura aprendola a tutte le possibilità».
Riflettono Luis Romero e Melina Fernández Temes, i due galleristi di Abra Caracas: «L’opera di Sheroanawe è un grande archivio vivo, in costruzione, di una memoria conservata e riattivata dalla sua inquietudine artistica, estetica e razionale: i suoi disegni e le sue pitture ci pongono di fronte al vincolo di comprensione tra noi, i nape, gli estranei, e gli yanomami»
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