Comunemente considerato il più grande impero economico della storia di tutti i tempi, l’impero coloniale britannico è nato da una costruzione che, nell’immaginario comune, è spesso associata a esplorazioni e imprese eroiche, condotte in terre esotiche e lontane, nonché alla potenza marinara inglese, che con una flotta imbattibile riuscì a imporre il proprio controllo sulle più importanti rotte commerciali marittime mondiali. Ma a ben vedere, dopo l’indipendenza delle colonie americane nella seconda metà del 700, il polarismo economico del cosiddetto Commonwealth, sembrò catalizzarsi principalmente sul rapporto fra il Regno Unito e il Sud Asia. D’altro canto l’India, misteriosa e affascinante, con tutte le sue risorse e ricchezze, aveva già visto l’alba e il tramonto di imperi immensi, quando per la prima volta gli esploratori europei dell’età moderna si affacciarono alle sue coste. E già dai tempi dei Romani il Subcontinente indiano era il fulcro attorno a cui gravitavano i floridi commerci fra il Mediterraneo e i porti cinesi e dei mari orientali.

Cordone ombelicale
La consapevolezza dell’importanza strategica ed economica della colonia India contribuì a creare nei decenni una sorta di cordone ombelicale con il Regno Unito, tant’è che Benjamin Disraeli, primo ministro britannico, arrivò a definire l’Inghilterra come una «potenza asiatica» e George Nathaniel Curzon, viceré d’India ai primi del Novecento, sostenne che gli inglesi sarebbero stati una potenza mondiale soltanto finché avessero avuto il controllo del Sud Asia.Nonostante il sopruso e le dinamiche utilitaristiche che sottendono in genere alla politica coloniale, è interessante notare come l’età vittoriana, che a sua volta influenzò l’epoca successiva, con il suo orientalismo aveva da un lato costruito un’immagine romantica, decadente e affascinante dell’India; e d’altro canto si sentiva investita di una sorta di missione civilizzatrice, benevolmente foriera di una trasmissione nazionale di saperi, arti e conoscenze tecnologiche.

Parte di questo immaginario distorto giunge fino a noi e ancora sopravvive, complice anche una ricchissima letteratura di finzione e non di epoca coloniale. È in questo contesto che si situa l’indagine di William Dalrymple, brillante storico e scrittore scozzese, che con il suo monumentale Anarchia (traduzione di Svevo D’Onofrio, Adelphi, pp. 634, € 34,00) si propone di rimettere a fuoco il paradosso storico alla base dell’impresa coloniale del cosiddetto Raj britannico.

D’altro canto il mondo moderno vede la storia come esito della politica degli stati nazionali: anche in chiave critica gli storici hanno analizzato il concetto di nazionalismo, costruito su un modello fatto di mappe, confini, monumenti, costruzione e decostruzione di questioni etniche e identitarie. È un modello che dalla vecchia Europa è stato aleatoriamente esportato anche nelle colonie in tempi passati. C’è tuttavia un certo imbarazzo da parte britannica nel constatare che le basi del più grande impero coloniale della storia non poggiarono nemmeno su questo modello, perché si costruirono invece sostanzialmente sull’epopea di una compagnia privata, un’associazione di mercanti, inizialmente non troppo fortunata, che aveva base in un modesto ufficio di Londra ai primi del ‘600, quando tutt’al più gli inglesi riuscivano a infastidire le altre potenze europee con le piratesche gesta della guerra di «corsa».

Dalrymple ricostruisce in particolare questa prima fase, in cui il mito dei capitani coraggiosi della Compagnia delle Indie Orientali lascia spazio all’accurata ricostruzione di fatti ed eventi drammatici, guidati dalla cruda legge della razzia e del saccheggio (l’autore per l’appunto segnala l’inglese loot come parola d’origine indiana). Avventurieri senza scrupoli, santi avvinazzati, ladri e mercenari, imbarcati sulle navi e pronti a far carriera a spese altrui, per quasi un secolo collezionarono per lo più fallimenti che la storia ufficiale fatica a ricordare.

Paradigmatiche le prime missioni di William Hawkings o Thomas Roe, che pur con esito diverso, approdarono per la prima volta allo splendore della corte Mughal, uno degli imperi allora più ricchi e potenti al mondo, rappresentando gli interessi di una piccola nazione del Nord Europa che al tempo aveva ben poco d’interessante da offrire ai grandi maharaja, ai sultani e agli imperatori d’India. Eppure già dal 700, attraverso la sottile politica del divide et impera, trattati, concessioni, acquisizioni di territori, colpi di stato sobillati e fomentati, la Compagnia era diventata una potenza in grado di tenere in scacco i numerosi principati protagonisti di un importante periodo di transizione della storia indiana.

Col senno di poi, va riconosciuto come da una timida fase di esplorazione e difesa delle factories commerciali che fu l’iniziale massima aspirazione inglese – a una fase di espansione e dominio coloniale, il passo fu effettivamente breve. E lo fu in virtù di una delle più geniali (e pericolose) invenzioni della storia: ovvero la società di capitali a partecipazione privata. La Compagnia fu proprio il prototipo di quello che oggi sono le multinazionali; seppe altresì sopravvivere e trarre vantaggio anche dalla parentesi repubblicana e dalla successiva restaurazione della monarchia. In virtù della patente regia, questo stato nello stato aveva libertà assoluta nelle politiche perpetrate nel Subcontinente e un proprio esercito, costituito in gran parte dai sepoys reclutati in loco, ma comandato da ufficiali bianchi.

Europei e indiani
L’incredibile intreccio delle vite di governatori, contabili, uomini politici e d’affari e studiosi europei del calibro di Warren Hastings, Robert Clive, Charles Cornwallis, Joseph-Francois Dupleix si intreccia con quelle dei protagonisti e leader indiani quali Shah Alam, Tipu Sultan, Siraj ud Daulah, Shivaji, Baji Rao e molti altri. Ne emerge uno scenario ibrido però in cui a fianco di gesta veramente eroiche, che contribuiranno a creare per i britannici la trama di un mito fondativo del colonialismo indiano, si delinea l’oscuro ordito del sopruso, della barbarie, delle atrocità mal dissimulate da rocambolanti imprese o donchisciottesche smargiassate. Il testo si conclude infatti con lo stato di anarchia a cui la complicità corrotta delle istituzioni e il liberismo spinto della Compagnia condussero la colonia.

Il 1857 fu punto di svolta nella storia del Subcontinente, che vide lo scoppio di quella che per gli indiani è la prima Guerra d’Indipendenza e che dagli inglesi fu sprezzantemente definita ammutinamento (Mutiny). Ma quantomeno ebbe come prima conseguenza il passaggio del controllo dell’India dalla Compagnia alla Corona britannica. Estremamente attuale, è sostanzialmente questa la domanda suggerita dall’autore: sono le ideologie, i popoli, i governi oppure le imprese economiche, le banche le compagnie a dover scrivere la storia? La vicenda della Compagnia delle Indie è un lampante esempio di come l’assenza di limiti in questo ambito possa schiudere quell’abisso che oggi chiamiamo abuso di potere.