Collocare una macchina da presa per la strada, nella Gerusalemme dei nostri giorni, è già di per se una sfida, un gesto politico, destinato ad attirare critiche e odio. «I tuoi parenti dovevano essere dei collaboratori dei nazisti, dei kapò», dicono dei passanti infuriati a Danae Elon, colpevole di riprendere una manifestazione contro la costruzione di case per soli ebrei in un quartiere a prevalenza palestinese.
Nel suo documentario, P.S. Jerusalem – presentato in Forum alla Berlinale – la regista racconta infatti il suo ritorno a casa, a Gerusalemme, dopo aver trascorso tanti anni a New York, la città dove sono nati i suoi primi due figli. Incinta del terzo, Elon torna col compagno nell’unico posto che, dice, si sia mai sentita di chiamare casa. Un sentimento che accomuna molte storie israeliane, come il lavoro dei fratelli Heymann vincitore del premio del pubblico in Panorama Dokumente: Who’s Gonna Love Me Now. «Sia io che loro utilizziamo le nostre vite in funzione di un’idea più grande di noi stessi», dice Elon. L’esperienza privata diventa in P.S. Jerusalem un fatto politico per il motivo stesso di tornare in un luogo contraddittorio come Israele, e l’avventura individuale è il ponte verso un discorso più vasto.

All’inizio il progetto era un altro: girare un film tratto da Jerusalem – City of Mirrors, uno dei libri del padre della regista, il giornalista e intellettuale Amos Elon che, giunto in Palestina negli anni Trenta abbandonò Israele nel 2004 deluso dalle sue politiche per ritirarsi a vivere in Toscana. Ma il film si rivela infattibile: «Ho capito di non avere nulla da aggiungere. Inoltre filmare Gerusalemme è molto diverso dallo scriverne: le immagini in se erano più forti di qualunque cosa potessi esprimere».

La storia del film diventa così lo stesso doloroso processo di «aggiustamento» alla vita a Gerusalemme, con i figli della regista che frequentano la scuola bilingue – arabo ed ebraico – ma devono stare attenti a che lingua parlano a seconda del quartiere in cui si trovano, e non sanno se partecipare ai festeggiamenti ebraici del giorno dell’Indipendenza o a quelli del Nakba, commemorazione dell’esodo palestinese del ’48.    

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E la scommessa di poter vivere nella propria casa di rivela purtroppo un’illusione.

Il film testimonia un’avventura dolorosa.
A Gerusalemme la vita è contraddittoria: in quanto ebrea sei in una posizione di potere e moralmente ambigua. Anche chi crede che l’occupazione sia sbagliata spesso sostiene l’importanza di far parte dell’esercito. Tornare in Israele da anti sionista significa che per te non c’è posto nella società . Cosa significa chiamare casa un posto così moralmente compromesso, ed essere parte di quella forza occupante? Cosa insegni ai tuoi figli quando ti ritrovi dalla parte degli oppressori, della violenza? È come crescere in Sudafrica durante l’apartheid, anche se sono in pochi a riconoscere che Israele sia uno Stato dove vige una simile divisione.

Perché la vita privata è così importante?
La mia generazione si sentiva sempre parte di qualcosa di più grande, eravamo legati a una storia non individualista. Ora questo è cambiato moltissimo ed è preoccupante: in Israele non si ha il privilegio di poter pensare solo a se stessi, perché la stessa nazione è nata da un sogno condiviso che si è infranto. Rifugiarsi in un individualismo estremo – per cui si vive tra il proprio appartamento a Tel Aviv, il mare e l’aeroporto – quando il paese attraversa una simile occupazione, è molto preoccupante.

Nel film sostiene che l’atto di filmare è come uno schermo dal senso di colpa.
Non volevo fare un film sui palestinesi, puntare la macchina da presa – come avevo fatto molte volte prima – sul delitto. Volevo vedere in quale modo il delitto ci condiziona. I coloni, le ingiustizie, cosa mi fanno provare? In quanto filmmaker la distanza dal nostro oggetto ci «consola», ci fa sentire meno colpevoli. Ma in quanto società siamo comunque responsabili. L’illusione della distanza era quindi per me qualcosa di importante da sottolineare. Una delle ragioni per cui faccio film personali è che penso che il mondo liberale, specialmente in Israele, viva in una sorta di bolla di ipocrisia. La convinzione di essere migliori, moralmente superiori, ha contribuito al declino totale del centrosinistra nel paese. C’è un collasso dello stesso tessuto che dà forma alla resistenza, che era composto da un gruppo elitario di privilegiati che non hanno fornito alcun genere di risposta.

Cosa comporta avere questo genere di posizioni oggi in Israele?
Collocare una macchina da presa da qualche parte immediatamente ti qualifica come traditore. Gli attacchi violenti sono una cosa nuova, dell’epoca di Netanyahu. Oggi la cultura viene qualificata come qualcosa che deve esprimere fedeltà al partito, ad Israele. Se si programma un film sul Nakba, ad esempio, si potrebbe perdere ogni finanziamento. La cosa più terrificante non è solo l’odio, ma la tendenza ad autocensurarsi perché ci si preoccupa del proprio sostentamento. È una sorta di versione capitalista dei metodi della Stasi.