Siamo sufficientemente esperti da sapere che la verità storica non è sovrapponibile alla verità processuale. Ogni investigazione su fatti criminali – di minore o maggiore rilevanza pubblica – è un procedimento più o meno faticoso, lungo, inquieto, stentato di approssimazione alla verità.

La parola ‘verità’ va usata con grande cautela, con assoluto rispetto. Ieri invece è stata maltrattata, abusata a proposito di Giulio Regeni. «Siamo convinti che il presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi sia un interlocutore appassionato nella ricerca della verità»: queste le parole del ministro degli esteri Angelino Alfano.

Di quale verità parla il nostro massimo responsabile della diplomazia? Non di certo dell’unica verità di cui noi disponiamo, ossia che in Egitto la tortura è una pratica sistematica.

Poco prima dell’estate il Comitato delle Nazioni unite contro la tortura aveva testualmente scritto nel proprio rapporto sull’Egitto: «La tortura segue spesso gli arresti arbitrari ed è usata per ottenere confessioni o per punire e minacciare i dissenzienti politici. La tortura avviene nelle stazioni di polizia, nelle prigioni, nei luoghi di Stato, nelle caserme delle forze di sicurezza. La tortura è perpetrata da poliziotti, militari, guardie penitenziarie. I torturatori quasi sempre godono di piena impunità, sebbene la legge vieti la tortura, evidenziando una grave distonia tra la legge e la pratica.
Alla luce di tutto ciò, si giunge alla conclusione che la tortura è una pratica sistematica in Egitto».

Le parole di Alfano vanno oltre la classica e amara real-politik. Esse costituiscono un omaggio personale a chi, secondo le Nazioni Unite, è a capo di uno Stato dove vengono commessi sistematicamente crimini contro l’umanità. Alfano scomoda la parola ‘verità’ pur di tenere in piedi relazioni politiche ed economiche.

Sarebbe stato ben più apprezzabile essere franchi e affermare con cinismo che di fronte a ragioni geo-politiche e commerciali i diritti umani e la giustizia debbano essere sacrificati. Invece viene scomodata addirittura la parola ‘verità’ per giustificare quella montagna di ‘non verità’ che finora sono giunte dalle parti del Cairo.

Perché a Sharm El Sheikh, a margine del Forum mondiale della gioventù, Al Sisi avrebbe affermato che le autorità egiziane si starebbero impegnando a trovare i colpevoli e che Giulio Regeni sarebbe stato torturato e ammazzato per far del male alle ottime relazioni (vale a dire investimenti) italo-egiziane.

Ma allora come si spiegano i numerosi intollerabili tentativi di depistaggio e la riottosità delle autorità egiziane a collaborare fattivamente e seriamente con quelle italiane? Secondo il nostro ministro degli esteri Angelino Alfano, Al Sisi sarebbe un appassionato uomo alla ricerca della verità, uno statista dunque. La verità fa parte dello stesso campo semantico della tortura e delle sparizioni forzate.

Se è la verità a stare a cuore ad Alfano ed Al Sisi allora leggano quelle verità scritte a chiare lettere da Amnesty International ed Human Rights Watch o presenti nell’ultimo Rapporto del Dipartimento di Stato degli Stati uniti secondo cui le autorità egiziane fanno sempre più uso di sparizioni forzate, utilizzate per scoraggiare l’insorgere di eventuali critiche d’opposizione.

Secondo la diplomazia americana non c’è proprio da fidarsi della giustizia egiziana: «I pubblici ministeri si sono regolarmente rifiutati d’indagare sulle denunce di tortura e altri maltrattamenti avanzate dai detenuti e sulle prove che mostravano che le forze di sicurezza avevano falsificato le date dei verbali d’arresto, nei casi di sparizione forzata».

Prima di ieri l’unica verità certa di cui disponevamo era il corpo torturato a morte di Giulio Regeni. Ora ne abbiamo un’altra: l’Italia con le parole di Alfano ha scelto la via dell’ingiustizia e della non verità.

*Presidente dell’associazione Antigone