La giornata, tersa e luminosa, autorizzava a presagirlo. Quando, davanti alla sede dell’Alta Corte, sullo Strand, viene finalmente data la notizia che Julian Assange potrà finalmente ricorrere in appello contro l’estradizione negli Usa, le centinaia di suoi sostenitori si abbandonano alla gioia mista a sollievo.

I due giudici britannici hanno appena accolto le istanze del collegio della difesa del giornalista-hacker australiano, secondo cui il governo statunitense non saprebbe garantirgli la protezione del primo emendamento della costituzione americana, quello sulla libertà di espressione.

NON È CHE UN PICCOLO passo verso la fine di un incubo per lui e la famiglia, non certo il grande salto necessario: l’appello non è affatto detto sarà accolto e Assange, che ieri non era in aula per via di condizioni di salute in continuo deterioramento – è recluso in isolamento da cinque anni nella famigerata prigione di massima sicurezza di Belmarsh -, dovrà aspettare altri mesi dietro le sbarre.

Nella peggiore delle ipotesi, rischia ancora quei 175 anni di carcere per aver pubblicato via WikiLeaks un nugolo di documenti secretati che, tra le altre cose, inchiodano gli Stati Uniti a una serie di omicidi di civili durante le invasioni di Iraq e Afghanistan.

Eppure, per la prima volta in questa storia di libertà di stampa fatta passare per spionaggio, nonché del diritto dei cittadini di sapere veramente cosa fanno i rispettivi governi nel loro nome, l’ottimismo pare consono: si tratta comunque di una battuta d’arresto per i legali statunitensi, un giro di boa che ne rende la strada tutta in salita mentre Joe Biden, dietro pressioni soprattutto di Australia e Brasile, potrebbe finalmente mollare la preda e concedere la grazia.

La decisione dei giudici era stata rinviata a ieri nella precedente udienza del 26 marzo scorso, nella quale avevano stabilito che Assange aveva tre motivi per fare appello: la sua estradizione è incompatibile con i suoi diritti alla libertà di espressione sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo; potrebbe essere discriminato nel giudizio a causa della nazionalità (non godendo lui, in quanto cittadino australiano, della protezione del Primo emendamento); infine, perché non potrebbe contare su una protezione adeguata contro la pena di morte.

Dopo aver fatto il possibile per consentire agli Stati Uniti di fornire tali rassicurazioni – sforzo tutto politico – il duo giudicante ha dovuto arrendersi all’evidenza che l’imputato potrebbe effettivamente essere privato della protezione del suddetto Primo emendamento: la decisione di concederlo spetta infatti al tribunale statunitense e non al dipartimento di giustizia americano, che non ha quindi potuto garantirla.

Tale mancata garanzia ha reso dunque appellabile l’estradizione secondo quanto stabilito in materia dalla legge britannica, che rifacendosi alla Convenzione europea dei diritti umani vincola l’estradizione di chicchessia alla protezione della sua libertà di espressione.

NEL FRATTEMPO sono passati quattordici anni, e Assange, ideale candidato al Pulitzer quando non, come senza alcuna sfacciataggine ha detto sua moglie Stella dopo la sentenza, al Nobel per la pace, è ridotto a una larva. «Abbiamo passato molto tempo ad ascoltare gli Stati Uniti che mettevano il rossetto a un maiale (Putting lipstick on a pig, abbellire una schifezza, ndr) ma i giudici non l’hanno bevuta», ha detto ai giornalisti davanti al tribunale. «Siamo sollevati in quanto famiglia, ma per quanto tempo può andare avanti così? Gli Stati Uniti dovrebbero valutare la situazione e abbandonare questo caso. Ora».

MOLTO DIPENDERÀ, in ogni caso, anche dalla fibra consunta di un uomo distrutto da quindici anni di cattività, prima nei pochi metri quadrati dell’ambasciata Londinese dell’Ecuador e ora in un carcere duro. L’appello sarà un ripartire da zero, e la data non è stata ancora resa nota. Sempre che Joe Biden, in sorprendente controtendenza con la serie di decisioni inanellate ultimamente in politica estera, non decida di fare una cosa una che sia giusta.