Con Lia Tagliacozzo, Helena Janeczek e Marcello Flores abbiamo discusso della Giornata della memoria, tra ritualizzazione depoliticizzanti e consolatorie, e opposti usi strumentali. Lia Tagliacozzo scrive sul manifesto, lavora per il programma della Rai, in collaborazione con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Sorgente di Vita. Ha pubblicato libri per adulti e ragazzi. Helena Janeczek, premio Strega 2018 con La ragazza con la Leica (Guanda), è scrittrice e collabora con diverse testate, tra cui la Stampa. Marcello Flores, storico, è stato professore di Storia comparata e Storia dei diritti umani all’Università di Siena e collabora con il Corriere della sera.

La Shoah viene usata in modo strumentale per nazificare Israele, e quindi gli ebrei e, allo stesso tempo, specularmente viene utilizzata per giustificare qualsiasi azione in difesa degli ebrei rispetto a un potenziale omicidiario antisemita. Intorno all’uso della memoria della Shoah ci sono discussioni infinite, con da ultimo il caso di Masha Gessen che sul New Yorker ha paragonato Gaza ad un ghetto. In un’Europa devastata dall’estrema destra, forse un buon uso della memoria della Shoah può essere quello di denunciare il razzismo, specificamente antiebraico, ma anche la permanenza di meccanismi discriminatori?
LIA TAGLIACOZZO: La distinzione da fare prioritariamente è quella tra storia e memoria. Da un lato si assiste ad un uso pubblico-politico della memoria, dall’altro ad un’abdicazione progressiva alle ragioni della storia. Solo la storia consente di comprendere i fenomeni di lungo periodo, di restituire complessità ai nodi del passato, per decodificare il presente. Al contrario, in questi anni, si è ricorso ai testimoni come riferimenti storici e morali. Testimoniare un evento, per tragico che sia, non rende competenti né su quell’evento, né in generale. Restituire ai testimoni la loro dignità e la loro storia permette di ragionare sul presente. In un momento in cui i testimoni se ne stanno andando, la questione della memoria andrà declinata in modo diverso, attraverso la storia. E non è un caso che, contemporaneamente, la storia venga progressivamente espulsa dai ragionamenti collettivi. Vale per la Shoah, così come per la questione del colonialismo, ma anche per le ore di storia a scuola o per il tema di storia alla maturità.

MARCELLO FLORES: Sono molto d’accordo. È ovvio che in questa Giornata della memoria non ci si possa dimenticare di quello che sta accadendo in Israele – Palestina. Ma credo che collegare direttamente le due dinamiche – per cercare di comprendere o giustificare i nostri giudizi sul conflitto -, significhi ridurre la Shoah ad una questione che riguarda gli ebrei e a come noi ci poniamo nei loro confronti. Al contrario, la Shoah è una questione che riguarda non solo il mondo intero, ma la civiltà occidentale in particolare. Non a caso, dopo più di cinquant’anni, si è scelto il 27 gennaio come giornata, proprio perché la Shoah era stata integrata nella consapevolezza collettiva europea. Tant’è vero che il Parlamento europeo continua a porre la Shoah come uno dei pilastri della memoria collettiva – ora accanto a quella del comunismo. Bisogna avere il coraggio di discutere distintamente della memoria della Shoah e del conflitto attuale, pur sapendo che è comprensibile, da un punto di vista emotivo, essere tentati di non farlo. Altrimenti, non si capisce nessuna delle due questioni.

HELENA JANECZEK: Questo 27 gennaio è anche un’occasione per riflettere sulle aporie che accompagnano il modo in cui è stata affrontata questa Giornata della memoria. La Shoah rimanda all’imperativo che non venga replicata. Ma, al contempo, ha fatto perno su un ascolto non problematico dei testimoni, intesi come vittime. Scompare la domanda sul ruolo della società, con i diversi ruoli che vanno dal «volonteroso carnefice» alle varie sfumature di quella che Primo Levi chiamava zona grigia. Questo è l’interrogativo sul quale sarebbe utile interrogarsi.

Infine, l’altro aspetto da considerare è che la ritualizzazione rassicurante della memoria, deve fare i conti con la sua inevitabile dimensione soggettiva, singolare o collettiva – e quindi politica – che sia. Questa soggettività impone la scelta di che uso fare della memoria. Bisogna dare un senso che, a partire dal passato, si protenda verso il presente per illuminare il futuro. Su questo senso, non possono che manifestarsi dei disaccordi. È ciò è positivo perché significa che il lascito è ancora vivo, e quindi ancora scomodo. In questo momento, il mai più consolatorio, ripetibile indipendentemente dalle posizioni politiche, coesiste con l’esigenza di un uso politico, di parte di questa memoria e quindi anche a delle possibili strumentalizzazioni.

LIA TAGLIACOZZO: Pensiamo ad un’altra storia della memoria, quella del 25 aprile. Progressivamente, i 25 aprile hanno visto, all’inizio, una grande partecipazione popolare, poi la parata militare ha sostituito le manifestazioni in piazza, infine, è arrivato l’oblio. Sono molto favorevole al Giorno della memoria, nella misura in cui, in questo paese, fino a prima della sua istituzione, non si parlava di Shoah. Tuttavia c’è un elemento che mi preoccupa: è come se il 25 aprile fosse abdicato in favore del 27 gennaio, proprio perché quest’ultimo, paradossalmente, in questa liturgia del ricordo, diventa una data meno divisiva. Serve una riflessione – che è politica – sul nostro passato ma che arrivi a lambire il nostro presente, al fine di dare un senso che non sia retorico alle due date. Ad esempio, nel lavoro con le scuole, è necessario mettere in connessione 27 gennaio e 25 aprile, così da costituire un calendario civile. Una memoria «sterilizzata» diventa buona per ogni occasione: non serve.

Valentina Pisanty ha scritto di questo paradossale meccanismo per cui, accanto all’inflazione della memoria della Shoah, abbiamo assistito a un rafforzamento dell’estrema destra nella società e nella politica che la rappresenta. Come si può tentare di dare senso a questa doppia dinamica?
MARCELLO FLORES: Una risposta probabilmente banale è che le questioni della memoria hanno un’influenza molto limitata sulle convinzioni, sulle ideologie e sulla consapevolezza che portano a fare delle scelte politiche nel presente. Ciò ha a che fare con il meccanismo che si determina quando le memorie non sono individuali o specifiche di un gruppo. Quando una memoria diventa, o vuole diventare, collettiva – come è la giornata della Shoah e come si è cercato di fare con il 25 aprile -, le conseguenze sul piano della scelta si indeboliscono. Anche La Russa può trovare nella memoria della Shoah qualcosa di significativo per lui – diamogli questa potenziale «onestà» che di certo non aveva vent’anni fa quando lo si vedeva apparire con immagini di Mussolini sullo sfondo. Ma ciò non cambia le sue scelte politiche.

LIA TAGLIACOZZO: Si tratta, tra l’altro, non solo di un problema legato alla sincerità del riconoscimento della destra della Shoah ma anche della serietà dell’adesione al paradigma repubblicano e democratico.

Infatti, anche perché i discorsi che fecero La Russa e Fontana quando si insediarono come presidenti delle Camere erano già estremamente ambigui e, in modo non sorprendente, in seguito, ci sono state polemiche in occasione delle ricorrenze pubbliche antifasciste e repubblicane. Non c’è una volontà di recidere seriamente il nesso col proprio passato. Non sono convincenti.
MARCELLO FLORES: Però sulla Shoah, sia pure in modo sempre solo formale, questa scelta l’hanno fatta. Proprio perché si è isolata quella memoria collettiva, il suo significato profondo non riesce a influenzare tutto il resto. Non riesce a influenzare il 25 aprile. Anche se dovrebbe essere inevitabile, dal momento che se si pensa alla Shoah non si può non pensare anche alla resistenza, nonché alla sua componente ebraica. Però, invece, questa dissociazione viene operata. Ed è anche questo il problema, probabilmente, del senso che nel futuro la Giornata della memoria potrà avere.

HELENA JANECZEK: Il riconoscimento da parte della destra – postfascista o fascista che sia – che la Shoah sia una cosa assolutamente da ricusare, viene usato per non allontanarsi criticamente da tutti gli altri aspetti del fascismo. Funzionalmente, la Shoah, come diceva Lia, aiuta a dire che il 25 aprile è divisivo, che non serve più guardare alla storia del fascismo. E, dato che la Shoah e le deportazioni, e in particolar modo quelle del 16 ottobre al ghetto di Roma, avvennero sotto occupazione nazista, si lega la Shoah alla memoria del paese occupato e non alle italiane Leggi razziali del ’38. Permette di dire che non era colpa degli italiani, se non in modo indiretto.

MARCELLO FLORES: Sarebbe importante collegare Shoah e resistenza antifascista. Ma, siccome invece, per la destra, l’accettazione della Giornata della Memoria è un’accettazione «passiva», la Shoah è posta come una sorta di male al di fuori dalla storia, e solo così viene riconosciuto. Finisce tutto lì e non costringe ad un giudizio conseguente sulla resistenza italiana.

Inoltre, c’è anche il tema della trasformazione di quale sia il «nemico» razziale. Per il postfascismo sono i migranti. E, in questa ridefinizione del nemico, gli ebrei assurgono a minoranza formalmente e relativamente «alleata», integrata dentro la falsità delle radici giudaico-cristiane. Inoltre, nel frame del cd. scontro di civiltà, Israele sarebbe il margine estremo dell’occidente, la prima linea del fronte contro autocrazie islamiche aggressive e armate. Ma un altro problema è che le rappresentanze istituzionali delle comunità ebraiche invitino un alleato della AFD come Salvini alla manifestazione contro l’antisemitismo, anche alla luce del fatto che lui e Meloni (nel libro intervista con Sallusti) continuano ad attaccare Soros in modo antisemita. Insomma, bisognerebbe forse anche vedere in che modo si sia trasformato il rapporto tra l’estrema destra e le minoranze ebraiche e non.
HELENA JANECZEK.: Il problema non riguarda solo l’estrema destra. La tesi delle radici giudaico-cristiane dell’Europa è ampliamente accettata, anche se cancella la storia dell’Europa anti-giudaica e di ciò che ha condotto alla Shoah. Si inventa un mito falso, definendo l’occidentalità attraverso un’impropria pacificazione. Di qui, ne conseguono inevitabili distorsioni sulla supposta identità occidentale.

MARCELLO FLORES: A me non entusiasma discutere quale sia la visione della storia della destra – anche perché ce ne sono varie. Se ci limitiamo al partito di maggioranza, non credo sia difficile individuarla. Egualmente, mi sembra che individuare possibili continuità con i razzismi dell’epoca fascista sia fuorviante per riuscire a capire le forme di razzismo contemporanee. Queste non sono forme di ostilità e discriminazione generiche contro un nemico. Siamo davanti ad una situazione diversa, più pragmatica, più misera, per così dire, fatta di piccoli interessi che hanno a che fare con problemi sociali e debolezze culturali.

Per semplificare potremmo volgere la questione così: che cosa sono gli ebrei oggi per l’estrema destra?
LIA TAGLIACOZZO: Il problema non è chi sono gli ebrei oggi per l’estrema destra, ma chi sono gli ebrei oggi, in generale, per questo paese, anche per la sua sinistra radicale. Per esempio, prendiamo la questione della doppia lealtà. Si dice che gli ebrei siano leali all’Italia, ma anche ad Israele, e, ancor di più a se stessi. Il tipico pensiero che porta al complottismo. C’è una percezione astorica che guarda con sospetto alla diversità di chi rivendica un’identità specifica, più complessa. La particolarità del Giorno della memoria di quest’anno è che viviamo in un paese in cui, di nuovo, gli ebrei non possono andare in giro con la kippah in testa. Oggi chi si fa garante del fatto che mio figlio, se volesse, possa farlo? Se gli unici diventano le forze dell’ordine, il problema si fa molto serio.

MARCELLO FLORES: La questione non credo che possa essere cosa la destra, estrema o meno che sia, pensa degli ebrei. In Italia, in particolare durante il conflitto in corso, c’è una rinascita di forme di antisemitismo. Per il momento, fortunatamente, quelle più violente sono limitate. Ma anche queste andrebbero fermate, prima che deflagrino. Invece, in Francia, già ci sono casi di violenza. Bisognerebbe chiedersi che tipo di legame ci sia. Da questo punto di vista, la sinistra in generale, e in particolare quella cd. estrema, ha convissuto lungamente con l’antisemitismo. Il problema è che oggi viviamo con una molteplicità di razzismi. Bisogna capire come si possa ridurre il tasso di razzismo della società italiana, anche riflettendo sulla storia del fascismo, così come delle diverse ideologie razziste che si sono succedute, fino ai giorni nostri, ad esempio con la Lega. Il razzismo va contrastato con l’educazione, che passa anche per il calendario civile. Al contrario, se la soluzione, anche per il centro-sinistra, è repressivo-penale e ruota intorno a nuove misure volte a sanzionare e incarcerare, significa che non ci si impegna sul fronte educativo-culturale. Come si vede rispetto alla discussione sul negazionismo.

LIA TAGLIACOZZO: Non a caso, il Coordinatore Nazionale per la lotta contro l’antisemitismo, prima era una docente universitaria, dopo un prefetto, infine un generale.

HELENA JANECZEK: Non si è mai cercato di ragionare su due cose. Anzitutto, su cosa sia e cosa possa diventare l’antisemitismo, e in che rapporto si trovi con il razzismo. E, in secondo luogo, che cosa siano gli ebrei. La problematicità nasce anche dal fatto che, effettivamente, l’identità ebraica è molto complicata da definire, soprattutto per un paese mono-religioso e semi-secolarizzato come l’Italia, dove si pensa che l’ebraismo sia una religione. Questo avviene anche tra persone che dovrebbero avere gli strumenti.

Non sono molto d’accordo con Marcello sul razzismo contemporaneo. Tuttavia, per affrontare l’assenza di una riflessione pubblica sul rapporto tra le istituzioni e le ideologie di questo paese e la questione razziale-coloniale, può essere utile l’istituzione di una giornata della memoria del colonialismo, oppure, anche per le ragioni qui elencate, dovrebbero essere altre le forme di riflessione pubblica?
MARCELLO FLORES: Mi batto da tempo perché la questione del colonialismo diventi oggetto di riflessione pubblica, collettiva, nella scuola e non solo. È la mancanza maggiore, anche nella memoria europea. E ciò ha a che fare, anche sulla falsa riga della Giornata della memoria, con il fatto che la memoria sia declinata in termini vittimistici. Non si vuole ricordare quando siamo stati carnefici: si preferisce dimenticare. Ma forse sarebbe inutile – oltre che molto difficile – pensare ad una giornata sul colonialismo in cui ci si flagella, anche per la difficoltà di scegliere una data specifica. Ad ogni modo, sul colonialismo deve essere fatto un importante, vasto lavoro di educazione storica e antropologica.

HELENA JANECZEK: Nelle celebrazioni della Giornata della Memoria, ad alcune giunte, anche soltanto sentir parlare di Porrajmos, di deportazione delle persone omosessuali, dà fastidio.

LIA TAGLIACOZZO: Nelle scuole, per parlare dello sterminio dei disabili dico progetto T4, per parlare di quello degli ebrei uso la parola ebraica Shoah, per quello di rom e sinti Porrajmos, delle persone omosessuali di Omocausto. Cerco di far ragionare sul fatto che per definire questi drammi si usano le parole delle categorie perseguitate. Sostanzialmente, riproponendo le categorie della persecuzione: è un paradosso su quale ci si dovrebbe interrogare.

All’inizio di questa discussione è stato detto che questo 27 gennaio è impossibile non pensare a quello che è successo negli ultimi tre mesi in Israele-Palestina e che però non bisogna schiacciare tutto sul presente. Che rapporto si può stabilire, o negare, tra le due dinamiche?
MARCELLO FLORES: Non so dare una risposta precisa. È fondamentale però dire che nei confronti della Shoah si fa un’analisi di quello che quell’esperienza traumatica ha significato in termini di valori e di consapevolezza per l’intera Europa. Dopodiché, rispetto alle ovvie intersezioni con l’attualità, bisogna, per esempio, fare alcune distinzioni terminologiche sul termine «genocidio». Non solo perché, dopo l’accusa del Sud Africa, la discussione è pubblica ma per l’idea sottesa del capovolgimento del popolo delle vittime in popolo dei carnefici. Quella è la mossa mediatica e propagandistica del Sud Africa: se avesse accusato Israele di crimini di guerra o anche di crimini contro l’umanità, non ci sarebbe stata una simile discussione. E, invece, bisogna cercare di essere precisi. Perché basta leggere qualche testimonianza di cosa sia stata la Shoah, o anche di che cosa sono stati altri genocidi, per capire che, con tutto il giudizio estremamente negativo che si può dare del comportamento del governo di Israele, sono delle cose diverse. Bisogna riconoscere la diversità delle cose, non per sospendere un giudizio, ma per ricostruire meglio quanto avviene.

HELENA JANECZEK: Al di là di quello che si possa pensare dell’iniziativa del Sud Africa, una cosa assolutamente inaccettabile, oggi molto diffusa, è l’antica tesi delle vittime diventate carnefici. Chiunque si riconosca in uno spettro democratico, dovrebbe rigettarla in quanto antisemita. Tra l’altro, è un’idea assurda perché implica che essere carnefici vada bene solo se i propri antenati erano iscritti ad una sorta di albo storico dei carnefici. Al netto del fatto che trovo problematico pensare a dei nessi di causa e effetto tra le due vicende, storicamente, è successo che una popolazione che ha subito persecuzioni abbia, a sua volta, commesso violenze contro altri gruppi. Non serve ad «azzerare i conti», in virtù della trasformazione in carnefici, non fa tornare al punto di partenza in cui siamo tutti innocenti.

E, in generale, rispetto al tema del senso di colpa e del desiderio di espiazione – molto forti nel paese dove sono cresciuta, la Germania – noterei che cospargersi il capo di cenere è diverso dall’assumersi una responsabilità. Anche se viene fatto con la massima onestà, non porta fuori da una postura, sostanzialmente, inerte rispetto al passato. Non serve a costruire un presente o un futuro migliore.