L’inaugurazione di una rassegna colta e interdisciplinare come quella sulla «Revista de Occidente», fino al 4 giugno al pian terreno della Biblioteca Nacional, costituisce l’omaggio di Madrid al «maggior periodico culturale del Novecento spagnolo» nel centenario dalla nascita. La necessità dell’evento, in una delle prestigiose istituzioni della capitale, è tradotta, per via di metafora, in un saggio che, nel bel catalogo-indice, porta la firma di Fernando Castillo Cáceres: lo scrittore ne traslittera la creazione in una cartografia cittadina, sovrapponendo memorie e una rete fitta di circostanze alla mappa metropolitana, o meglio a quell’area centrale, stretta fra Chueca, Malasaña e Puerta del Sol, che si distende lungo la prospettiva di Gran Vía.

È all’imbocco di quest’asse, in direzione Plaza de España, che s’avvia la storia della «Revista». Ha rammentato infatti Francisco Vela, rispettatissimo segretario di redazione, come, in un giorno d’aprile del 1923, all’entrare in Calle de Alcalá, José Ortega y Gasset, il filosofo dell’España invertebrada, gli avrebbe proposto di fondare un foglio, specchio necessario dei questionamenti dibattuti nel paese e megafono di discussioni ampie, animate oltre il confine aguzzo dei Pirenei. Un almanacco cosmopolita d’eco nazionale, in dialogo con l’Europa e ponte verso l’Impero perduto, l’Iberoamerica, caduto sotto il giogo degli Stati Uniti ma unito alla Spagna da una lingua comune, ripresa in dolci accenti e in varianti sonore.

Dettaglio di copertina del primo numero della «Revista de Occidente», luglio 1923

Per continuare con la storia del periodico parallela alla reinvenzione novecentesca di Madrid: gli uffici della gazzetta si sarebbero sistemati proprio al centro della trafficata arteria che unisce il monumento a Cervantes al Círculo de Bellas Artes, in un edificio disegnato da José Yarnoz Larrosa con affaccio immenso di vetrine per pubblicizzare i libri dell’Editore Calpe. Sponsor di palazzo e rivista, l’imprenditore Nicolás María de Urgoiti, poderoso alleato del filosofo, al fianco del quale aveva già vissuto l’esperienza di un quotidiano – El Sol – e che avrebbe accompagnato nell’idea di statuire una casa di pubblicazioni, consacrata all’aspetto commerciale del mercato e alla sua funzione pedagogica.
Urgoiti e Ortega stavano insomma sognando una società moderna nel luogo stesso in cui la Spagna intravvedeva Parigi e s’immaginava New York, fra geometrie art déco ed eleganze notturne, fra cinema lussuosi e cocktail bar sofisticati: un mandato a tal punto urgente negli spregiudicati anni venti, da istallarsi in una sede in edificazione, come in fondo appariva la storia stessa del paese sin dalla perdita di Cuba nel 1898. Che l’intuizione fosse indifferibile lo dimostra il tracollo di governo seguito all’uscita della «Revista», a due mesi dalla distribuzione del primo numero, col colpo di stato militare animato da Miguel Primo de Rivera grazie al sostegno di Alfonso XIII: svaniva la proiezione d’un paese democraticamente aperto alla contemporaneità, lasciando spazio a un nazionalismo endogamico d’hispanidad trionfante, che imbruttiva il disorientamento delle coscienze sotto la paura di un controllo autoritario.

Sarebbero rimaste, a indicare una via diversa, le copertine del mensile, destinato a percorrere la dittatura con la pretesa d’apoliticità per l’azione intellettuale, da rivolgersi a un’audace indottrinamento delle minoranze cólte in vista di futuri cambi di passo. Apprezzare il glamour di quei piatti candidi, oggi in fila composta nelle vetrine della Nacional, con un lettering di decoro disinibito, i fregi miniati da artisti come Norah Borges o Benjamín Palencia, Rafael Barradas o Maruja Mallo, il corsivo calligrafico dei sommari, lascia intuire quale progetto ne tendesse la perfetta tenuta stilistica, riverberata in un intero programma culturale, per cui al periodico si sarebbero associati un’etichetta d’edizioni (la Nova Novorum), serate informali di dibattito (la cosiddetta «tertulia de los occidentales»), persino appuntamenti espositivi negli uffici della redazione: e se una qual certa atmosfera elitista caratterizza ciascuna di queste iniziative (la mostra della Mallo, inaugurata il 26 maggio 1928, non era un evento pubblico ma piuttosto un’occasione per condividere, fra amici e sostenitori, il nome di un’artista giovane), è indubitabile che il ripensamento orteguiano dell’azione ludica delle avanguardie – La deshumanización del arte, 1925 – mirasse ad aprire i confini di un intervento, quello delle frange educate, verso scelte decise, d’impatto per le strutture della società.

Al proposito, si può rileggere il giudizio, come sempre brillante e immaginoso, che un contemporaneo aggiornatissimo quanto Ramon Gómez de la Serna avrebbe espresso di fronte al fascicolo d’esordio di «Revista de Occidente», ammirando nel colore della testata «un verde del que solo se da en algunas plantas de América quizás en las proximidades del Amazonas» e nelle lettere caratteri «de largas des y de pes con larga espaldas».

Certo, a leggere il sommario di ciascun numero – incluso in catalogo con lavoro certosino – si resta stupiti, oltre che dai nomi degli autori tradotti in castigliano (per l’Italia in competizione con quelli presenti sul 900 di Bontempelli), dalla differenza di prospettive rappresentate da contributi sempre curiosi ma divergenti per impulsi e conclusioni. Tuttavia, se pure un andamento tanto eclettico potrebbe suscitare interrogativi sull’effettiva capacità di penetrazione del mensile, sospeso fra Europa e America Latina ma anche fra tradizione e modernità, in una titanica conciliazione dei contrari entro un sentimento acuito della storia, basterà lasciare la Biblioteca e indirizzarsi alla Residencia de Estudiantes, vicino al CSIC, per comprendere in quale humus l’ammaestramento di Ortega dovesse affondare le proprie radici. Fondato nel 1910, il centro fu la fucina di una leva letteraria, la Generación del 27, destinata a trovare ospitalità sulle pagine della «Revista», traducendo in termini contemporanei l’eredità dell’Institución Libre de Enseñanza, fra le esperienze pedagogiche più avanzate vissute in Spagna a partire dal XIX secolo; non a caso, proprio oggi, in quegli ambienti, si ricorda la produzione di Francisco Bores, pittore che – più tardi esule a Parigi – contribuì con deliziose invenzioni alla veste très chic di un capitolo tanto fondamentale per l’editoria iberica.