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Respingere significa uccidere

Respingere significa uccidere

Omissione di soccorso La globalizzazione non è stata e non è l’internazionalizzazione degli esseri umani e delle loro lotte contro le disuguaglianze; la «globalizzazione reale» non è altro che il neocolonialismo che il mondo occidentale ha avviato a partire dalla fine della Guerra Fredda

Pubblicato più di un anno faEdizione del 18 giugno 2023

Non ci sono più parole in grado di dar voce al dolore e alla rabbia di fronte a quest’ultima, immane strage di migranti, peraltro prevedibile e prevista. Non ci sono più parole perché inevitabile si affaccia l’idea che altre analoghe stragi seguiranno, di cui molte neanche percepite dall’opinione pubblica, perché avvenute nel nulla mediatico in cui a partire dall’esternalizzazione delle frontiere, sempre più a Sud, si attua ormai il momento tragico del respingimento che spesso vuol dire condanna a morte.

Dobbiamo ripetercelo, anche se a rischio di non venir ascoltati: siamo di fronte alla sistematica attuazione di una linea politica concordata dall’intera compagine dell’Unione europea, sempre più divisa e declinata quanto ad orizzonte in chiave atlantica, come deterrente del flusso di migranti che continua a voler varcare i confini dell’Europa Fortezza. Come d’altronde avviene in America del Nord e in Australia.

Ripetiamolo ancora una volta: la globalizzazione non è stata e non è l’internazionalizzazione degli esseri umani e delle loro lotte contro le disuguaglianze; la «globalizzazione reale» non è altro che il neocolonialismo che il mondo occidentale ha avviato a partire dalla fine della Guerra Fredda e che ancora tenta di imporre a quanta più parte possibile del resto del mondo, ricorrendo in un modo o nell’altro ancora una volta alla guerra per modificare gli equilibri geopolitici a proprio favore.

I migranti, che da quelle guerre e dalla loro miseria da noi provocata arrivano, ne sono l’altra faccia, coloro cui non è più neanche dato attestarsi sulla soglia della povertà a casa loro, perché saccheggiamo le loro risorse naturali, sfruttiamo la loro mano d’opera, devastiamo il loro ambiente, finanziamo guerre, dittature o governi corrotti che ci fanno comodo.
I migranti sono l’altra faccia di un mondo orwelliano, in cui si fa la guerra per la pace, in cui le vittime sono i colpevoli, in cui il nostro benessere posa sulla legge della giungla tutto intorno a noi.

Occorre dirselo: nulla è più contrario oggi ai diritti umani del neoliberismo, non a caso prodotto, come in un laboratorio politico, a partire dal secolo scorso con i colpi di Stato in Cile e in Argentina. Perché un sistema politico che fa del profitto individuale il suo unico dio e della riduzione della spesa pubblica (tranne che per le armi, beninteso) il suo Vangelo, non può accogliere le nude vite di chi viene da noi depredato: sono, nel migliore dei casi, cioè se muoiono nel viaggio, dei vuoti a perdere, nel peggiore, cioè se malgrado tutto arrivano, i sovversivi che accampano diritti: il diritto a venir salvati, il diritto a venir assistiti, il diritto all’inclusione in un mondo che dei diritti si riempie la bocca, salvo poi calpestarli appena può.

Dobbiamo ripeterlo: le singole morti, i singoli naufragi non sono altro che i tasselli attraverso cui si attua una politica concordata tra i Governi dell’Occidente tutto: l’adozione di un complesso di misure pattizie, di controllo delle frontiere o di omissione di soccorso che, attraverso anche la creazione di un sistema di campi di concentramento a macchia di leopardo, hanno esclusivamente finalità di deterrenza nei confronti dei flussi migratori che noi stessi provochiamo, costi quello che costi, in termini di vite umane.

È per dare un nome a questo aberrante nuovo operare degli Stati che è stato coniato il termine migranticidio, che si richiama, quanto alla carica di orrore che suscita, a quello di genocidio, nelle cui categorie, tassativamente elencate, non può essere incluso. Dipende da noi trovare la forza per opporvisi, se non in nome del sempre più attualissimo quanto dimenticato monito «Socialismo o barbarie», almeno in nome di quell’etica socratica che accompagna le democrazie fin dal loro primo apparire.

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