Repressione e covid, spenti i riflettori in Myanmar si continua a morire
A cinque mesi e mezzo dal golpe Contagi e cimiteri fuori controllo, le previsioni sono catastrofiche. E la giunta militare uccide ancora
A cinque mesi e mezzo dal golpe Contagi e cimiteri fuori controllo, le previsioni sono catastrofiche. E la giunta militare uccide ancora
«La mattina del 16 luglio, Tin Ohn del villaggio di Ayekayit, regione di Magwe, è stato colpito da più di 15 colpi di arma da fuoco dalla giunta terroristica che non cercava suo figlio Yan Myo Aung, parlamentare. È morto mentre lavorava in un campo di sesamo». È uno dei tanti resoconti che sabato Assistance Association for Political Prisoners ha scritto nel briefing online quotidiano sulla situazione in Myanmar: ieri 914 morti e 5.281 ancora in stato di arresto.
A 5 MESI E MEZZO DAL GOLPE del 1 febbraio, anche se i riflettori della cronaca si sono spostati altrove, in Myanmar si continua a morire. «E i prezzi al mercato sono schizzati in alto», ci dice una madre di due figli che ha anche la nonna a carico e vive nella regione centrale del Paese: «Non so come sfamarli». Ma oltre alla fame e alla violenza quotidiana c’è il Covid-19, una nebulosa che poggia su dati inattendibili e che guadagna terreno.
Secondo la stampa locale, i cimiteri di Yangon hanno avuto una delle settimane più impegnative, cremando oltre 700 corpi solo giovedì e altre centinaia i giorni precedenti. Da allora, circa 1.000 persone sarebbero morte in città e i cimiteri non sarebbero più in grado di gestire il volume di corpi che arrivano. Stando a Mary Callahan, docente all’americana Henry Jackson School of International Studies che ha lavorato in Myanmar per 30 anni, «una stima fornita dagli esperti in Myanmar prevede – ha scritto ieri su AsiaTimes – che il 50% dei 55 milioni di abitanti sarà infettato entro tre settimane dalla variante Alpha o Delta», con una previsione che potrebbe vedere la popolazione «decimata di almeno 10-15 milioni quando il Covid sarà finito».
Se in Myanmar intanto resta accesa la fiamma della protesta, la diaspora ha acceso ieri la sua in decine di città del pianeta (in Italia, a Venezia) per chiedere che venga riconosciuto il governo clandestino di Aung San Suu Kyi. La mossa politica che nessuno vuole fare ma che forse potrebbe cambiare le carte in tavola. (a.d.p./e.g.)
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