«La mia fotografia è come il volo di un uccello che viaggia attraverso i luoghi che hanno attirato la mia attenzione». Questa frase dice molto delle particolarità e dell’eclettismo di un artista come il cileno René Castro (nome d’arte ReNe Castro). Era posta in esergo di uno dei pannelli che accompagnavano la mostra a lui dedicata, «Bordes y Transfonteras. La obra de Rene Castro», allestita nei mesi scorsi e fortemente voluta da Daniel Cruz, direttore del MAC (Museo de Arte Contemporáneo) di Santiago del Cile, il quale in un altro di questi pannelli segnalava come nel caso di ReNe, si sia trattato sempre «di seguire con passione le ossessioni, in diverse parti del globo senza restrizioni, trasformando sé stesso in un abitante del mondo e dei suoi enigmi. Questa è una qualità che parla di un artista sensibile al transito, a ciò che emerge ed è urgente. Non estraneo alle complessità dell’umanità, soprattutto nei momenti in cui si trasforma in uno stato abietto». È una storia davvero speciale quella di ReNe Castro, talento indubbiamente leonardesco: fotografo, artista, scenografo, designer, nonché militante che ha intrecciato la propria storia con quella drammatica del suo paese, pagandone crudelmente le conseguenze e trasformando l’esilio in un’occasione.

ReNe Castro è nato a Viña del Mar, in Cile, nel 1943. Ha ottenuto un Bachelor of Arts presso l’Università del Cile negli anni ’60 e ha partecipato non marginalmente alla fondazione del Movimento della Sinistra Rivoluzionaria (MIR), assumendosi la responsabilità della leadership studentesca. Subito dopo il colpo di stato militare, è stato arrestato e poi torturato nell’Estadio Nacional e nel compound militare del famigerato reggimento Tacna, per poi essere trasferito e incarcerato per due anni a Chacabuco, nel deserto di Atacama, il più arido al mondo, dove una vecchia fabbrica per la produzione del salnitro era stata trasformata in campo di concentramento, con tanto di torrette di guardia, rete elettrificata e un campo minato…René Castro, è riuscito poi a fuggire dal Cile e ha deciso curiosamente di trasferirsi nel paese dove il colpo di stato cileno era stato ideato, coordinato, finanziato: gli Stati Uniti. In particolare ha deciso di stabilirsi a San Francisco, che in effetti negli anni settanta era una specie di enclave libertaria quasi autonoma, una sorta di utopia urbana votata alla psichedelia e alla sperimentazione sociale. E nella Bay Area, Castro è divenuto ben presto un membro di rilievo della scena artistica chicano-latina. Da lì ha iniziato un percorso che è andato avanti per più di cinquant’anni (oggi ne ha ottantuno).

Un lavoro fatto di fotografie (anche nelle vesti di reporter), manifesti serigrafati, manufatti e pittura. «Il suo lavoro – ha scritto Kemy Oyarzún Vaccaro professore della facoltà di filosofia e di studio umanistico dell’Università del Cile – abita molteplici pratiche di strada e culture carnevalesche, nel senso migliore del termine: carne, incarnazione, proteste, commemorazioni e feste popolari in zone di marginalità e subordinazione. È un lavoro diversificato che si muove di pari passo con le tensioni popolo/nazione, colonialismo/emarginazione. Questo artista visivo e fotografo unisce ciò che è difficile da articolare: l’espressione e la trasmissione di significati, laddove i materiali significativi possono diventare anche i cartelloni stradali, quotidiani e poetici, capaci di evocare le tensioni tra il soggettivo, il collettivo e le molteplici forme di assoggettamento della globalizzazione».

In California Castro ha fondato nel 1977 il «The Mission Cultural Center for Latino Arts» e quasi parallelamente ha cominciato a fare il reporter sia in scenari di guerra e di grande turbolenza come il Costa Rica, il Messico dei narcos, la Bolivia, l’Ecuador, l’Irlanda del Nord e la Palestina, sia documentando eventi come il gay Pride che – sono parole sue – «è un simbolo visivo della comunità LGBTIQ+ nella sua lotta per l’accettazione della diversità nella società americana, una lotta che è stata lunga, dura e fatta di enormi sacrifici, e che nella sfilata mostra ogni anno tutto lo splendore visivo e la creatività di una comunità». In contemporanea con questo lavoro che documenta il suo impegno di fotografo engagé, Castro ha sempre coltivato la sua passione per la grafica che si è intrecciata con il suo interesse per la musica.

Già in Cile aveva realizzato copertine per Victor Jara, Mercedes Sosa, i Quilapyun e gli Inti Illimani, ma il suo lavoro in ambito musicale è decollato quando ha cominciato a collaborare stabilmente con gli U2 (realizzando copertine e curando l’allestimento di alcuni loro tour) e firmando le cover di alcuni album di Santana (Viva Santana, Blues for Salvador, Electric Church Archives Vol.1), o ancora degli Inti-Illimani (Leyenda, Andadas, Canta a Manns), Patricio Manns (La emoción de vivir, La Tierra entera), Horacio Salinas (Musica para cine vol.1) e Ruben Blades.

Per quanto riguarda la band di Bono Vox, Castro ha lavorato come fotografo, scenografo e cartellonista per il gruppo tra il 1986 e la metà degli anni ’90, molto prima che gli U2 diventassero emissari ufficiali del pop nelle campagne di sostegno per il Terzo Mondo.
In occasione del «Love Town Tour» (che vedeva un set della band di B.B. King come opening act) la band ha chiesto a ReNe Castro, conosciuto già ai tempi del «Conspiracy Of Hope Tour», di realizzare le immagini che avrebbero fatto da sfondo al gigantesco palco. Castro ha realizzato così alcuni grandi teli colorati con impresse immagini tipo murales di vari simboli, tra cui una mezzaluna, un serpente e una gigantesca chitarra. Pochi anni dopo si è occupato anche delle scenografie dello «ZooTV Tour» illuminando dall’interno e appendendo a molti metri di altezza decine di vecchie Trabant.

Ma il suo ruolo non si è limitato solo alle copertine, ai poster promozionali, alla cura della grafica e alle scenografie della band. Castro è diventato ben presto il grimaldello con cui gli U2, Bono in particolare, hanno appreso e sono entrati in contatto con storie di perseguitati ed esiliati dalle dittature latinoamericane. «Vedevamo in lui proprio la sensibilità latina che cercavamo in quei giorni» ha dichiarato il frontman della band. E Castro è stato anche il biglietto d’ingresso di Bono nella musica di Víctor Jara (al quale la band riserverà un esplicito riferimento in One Tree Hill, da The Joshua Tree) e un compagno di viaggio sempre pronto a brindare con whisky irlandese o giocare a biliardo in California.

Il pittore, artista visivo e, a questo l’abbiamo capito, anche «tante altre cose», ha documentato la sua storia in uno dei video che giravano nelle sale della mostra di Santiago. Vi mostrava le foto e le riviste che conserva tutt’ora in una cantina della sua casa a due piani, adagiata su una delle colline di Concón. Una casa che si affaccia sulla spiaggia principale della cittadina, con la brezza marina che soffia tra i boschi e l’estate in tumulto sullo sfondo. Da lì Castro sfogliava le sue immagini accanto a un Bono ventenne, con i capelli che gli cadevano sulle spalle, un cappello da gringo e uno sguardo da alcolizzato. Castro si è trasferito a Concón dal 2004, l’anno in cui ha deciso di porre fine a ventinove anni di esilio in California per tornare in Cile, finalmente libero dalla dittatura, scegliendo infine, con un colpo di scena da vero outsider, di «auto esiliarsi» – sono ancora parole sue – in questa amena città della costa, battuta dall’Oceano Pacifico.