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Reinvenzioni del Giappone ancestrale nei racconti brevi di Lafcadio Hearn

Reinvenzioni del Giappone ancestrale nei racconti brevi di Lafcadio HearnUeno Hikoma, Veduta di Tokyo dal Colle di Atago, 1870 ca.

Ottocento in lingua inglese «Storie giapponesi di paura», da Rizzoli

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 26 novembre 2023

Pare che Lafcadio Hearn avesse paura del buio. Quando sua moglie giapponese gli leggeva ad alta voce le storie nere prese dalla tradizione folkloristica locale – lasciando accesa soltanto una piccola lampada sufficiente appena a illuminare le pagine del libro – lo scrittore si produceva in moti di sgomento e terrore talmente espressivi da spaventare a sua volta la donna. Eppure, prima di consegnare i suoi ultimi quindici anni ai rassicuranti colori della flora orientale, Hearn (1850-1904) visse buona parte della sua vita precedente immerso negli inquietanti bassifondi degli Stati Uniti metropolitani (Cincinnati, Ohio), dopo essere stato, di fatto, abbandonato dalla famiglia greco-irlandese, ciò che spiega l’adozione, da parte dello scrittore – nato Patrick «Paddy» Lafcadio Hearn –, del nom de plume provocatoriamente legato a un luogo di nascita mai vissuto davvero come «casa» (nei suoi anni giapponesi il suo nome diventerà infine Koizumi Yakumo).

In questa condizione di sradicamento si può forse trovare anche il senso dell’amore di Hearn per i dettagli e le storie ancestrali dei luoghi da lui visitati e raccontati: l’America, innanzitutto, dove cominciò a scrivere nelle vesti del cronista di nera; poi le Antille francesi (i suoi racconti da inviato a Saint-Pierre, la «Parigi delle Indie Occidentali», avrebbero ispirato un altro «Paddy», anche lui viaggiatore e scrittore, Patrick Leigh Fermor, per il suo unico romanzo, I violini di Saint-Jacques, di recente ripubblicato in Italia); infine, l’amato Giappone, paese del quale sarebbe stato riconosciuto, dalle generazioni nipponiche successive alla sua, voce autentica della tradizione locale, a dispetto delle critiche di «esotismo» a lui mosse, paradossalmente, in Occidente.

Negli ultimi anni le storie giapponesi di fantasmi e «del terrore» di Hearn hanno trovato nuova risonanza un po’ ovunque, tanto che una selezione di Ghost stories è stata accolta da poco nella Penguin Classics e un’altra è stata editata da Princeton University Press. Anche in Italia le pubblicazioni sono state diverse: nel 2018 le Ombre giapponesi curate da Ottavio Fatica sono state ripescate da Adelphi, e altri racconti sono apparsi presso vari editori.

Arricchisce ora il panorama una raccolta di Rizzoli, Storie giapponesi di paura ( nella traduzione di Andrea Cassini, con illustrazioni di Elisa Menini, a cura di Maria Gaia Belli e con una prefazione di Paolo Linetti, pp. 249, € 19,00). Una trentina di storie, non necessariamente «spaventose», spesso unite dal filo conduttore del superamento del confine tra la terra dei vivi e il mondo dei più (emblematici di questa inclinazione sono «L’invenzione della morte», «Il cavalca-cadaveri», «Una questione di usanze»).

Solo un racconto si dilunga oltre la misura delle poche pagine che compongono ciascuna di queste «storie di paura»: si tratta di «Un karma passionale», che viene introdotto dall’autore come entusiasmante caso dal quale si apprendono «nuove sfumature di terrore». Il racconto è poi di fatto una riduzione di un romanzo-dramma teatrale giapponese di fantasmi, «La lanterna di peonie».

«Un karma passionale» è un esempio perfetto del lavoro portato avanti da Hearn sulle storie della tradizione nipponica, in bilico tra rifacimento, recupero «storico», e omaggio letterario e sentimentale a una cultura nella quale lo scrittore aveva finalmente trovato quella «casa» che gli era sempre mancata.

Ciò che continua a rendere vivaci i racconti di Hearn, e questa nuova edizione lo conferma, è il tocco sommessamente «didattico» con il quale il narratore si intrufola, di tanto in tanto, nelle storie strambe che racconta, provocando un leggero slittamento metaletterario che accompagna il lettore all’interno di un universo narrativo sì sorprendente, e qualche volta spaventoso, ma mai esoticheggiante, nel quale, come forse fu per lo scrittore che aveva paura del buio, ci si sente più che altro accolti e messi a proprio agio.

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