La questione è davvero molto delicata, per questo i giudici della Corte costituzionale riuniti ieri in camera di consiglio – per decidere di fatto le sorti del processo (interrotto per “assenza” degli imputati) ai quattro funzionari della National Security Agency egiziana accusati di aver torturato e ucciso nel 2016 Giulio Regeni – hanno scelto di prendersi più tempo e aggiornare ai prossimi giorni l’esame delle eccezioni sollevate dal Gip del Tribunale di Roma, Roberto Ranazzi.

Una decisione che la famiglia del ricercatore friulano attende con ansia. Ieri infatti in molte città italiane – anche a Roma, ma volutamente non nei pressi del palazzo della Consulta – sono stati organizzati sit-in del cosiddetto «popolo in giallo» che si è voluto fare testimone di «una comunità numerosa, responsabile e inarrestabile» nel chiedere «verità a giustizia per Giulio».

All’analisi dei giudici costituzionali – che si sono riuniti in camera di consiglio, senza udienza pubblica, perché né lo Stato né la famiglia si sono costituiti parti del procedimento, né a favore né contro – c’è l’art. 420-bis, comma 2 del Codice di procedura penale così come è stato riformulato dalla riforma Cartabia (10 ottobre 2022) «nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza dell’imputato, anche quando ritiene altrimenti provato che l’assenza dall’udienza sia dovuta alla mancata assistenza giudiziaria o al rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato».

In sostanza, la legge attuale in materia di “assenza dell’imputato” (da non confondere con la contumacia, situazione in cui l’accusato non è presente in udienza malgrado ritualmente avvisato) non prevede casi come quello che da anni impedisce alle autorità giudiziarie italiane di proseguire nell’accertamento della verità e nel perseguimento della giustizia nei confronti degli aguzzini e degli assassini di Giulio Regeni, ritrovato cadavere orrendamente mutilato sulla strada tra Il Cairo e Alessandria il 3 febbraio 2016.

Le autorità egiziane, infatti, a partire dalla procura generale del Cairo, non hanno mai collaborato con i magistrati italiani e hanno invece opposto un muro alle loro richieste, mentre nel Paese di Al Sisi fin dalle prime ore si è messa in moto una micidiale macchina di depistaggi che nel tempo ha mietuto anche vittime innocenti. Malgrado rogatorie internazionali e richieste anche per via diplomatica, i magistrati cairoti si sono sempre rifiutati di dare agli inquirenti italiani gli indirizzi dei quattro imputati, necessari per poter procedere alla notifica degli atti processuali.

Secondo il tribunale di Roma, sezione Gip/Gup, la norma attuale che di fatto impone uno stallo al processo potrebbe non essere in linea con gli articoli 2, 3, 24, 111, 112, 117 della Costituzione, con la Convenzione Onu contro la tortura (ratificata dall’Egitto nell’86) e con la direttiva Ue in materia di tutela delle vittime di reato. La questione di costituzionalità è stata sollevata all’udienza del 3 aprile 2023 quando, scrive il giudice Ranazzi nell’ordinanza con cui si è rivolto alla Consulta, il quadro probatorio «riguarda la volontà dello Stato egiziano di sottrarre i 4 imputati al nostro processo, ma non è tale da far ritenere provata la volontà dei 4 imputati di sottrarsi al processo. In ipotesi, gli stessi o anche solo uno di loro, potrebbero voler partecipare al processo in Italia, magari per dimostrare di essere innocenti, e la loro partecipazione essere invece impedita dalle Autorità egiziane».

Motivo per il quale il Tribunale di Roma non ha potuto accogliere le argomentazioni dello Stato e della famiglia Regeni secondo le quali, a parte l’«ampia risonanza mediatica» della vicenda anche in Egitto, gli imputati, in quanto funzionari della National Security Agency, non solo «hanno preso attivamente parte alle indagini condotte in loco sul caso», ma «sono nelle condizioni di essere informati, per la loro qualifica e funzione, di qualsiasi notizia riguardante il suddetto procedimento».

Per i giudici della Consulta si tratta ora di considerare il bilanciamento dei diritti della famiglia Regeni ad un giusto processo, l’obbligatorietà dell’azione penale, e la tutela degli imputati. In ogni caso, il bug della norma attuale «di fatto crea in Italia, Paese che si ispira ai principi democratici e di eguaglianza – scrive Ranazzi – una disparità di trattamento rispetto ai cittadini italiani e ai cittadini stranieri di altri Paesi, che in casi analoghi verrebbero processati». Spetta ora alla Consulta stabilire se uno Stato estero – per di più non democratico – possa deliberatamente porre un limite insormontabile alla giustizia italiana.