Lunedì nel colloquio tra la presidente del consiglio Giorgia Meloni e il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, la prima – secondo Palazzo Chigi – ha sollevato la questione irrisolta dell’omicidio di Giulio Regeni.

Senza apparentemente chiedere, la nota non lo dice, un chiarimento rispetto alla notifica mossa al ministero della giustizia italiano da quello egiziano: «A fronte delle insistenti richieste italiane di ricevere gli indirizzi dei quattro imputati egiziani» per poter notificare loro l’iscrizione nel registro degli indagati per sequestro, tortura e omicidio, «la Procura generale (del Cairo) ha già svolto indagini nei confronti degli stessi quattro imputati nel procedimento italiano. Indagini conclusesi il 26 dicembre 2020 con un decreto di archiviazione». Insomma, basta chiedere collaborazione giudiziaria, per al-Sisi il caso è chiuso.

LO DICE un documento depositato al tribunale di Roma dal capo dipartimento per gli affari giustizia, Nicola Russo. Il ministero egiziano appone poi la pietra tombale: «La Procura generale egiziana ritiene che il provvedimento (di archiviazione) abbia natura decisoria irrevocabile».

Che i quattro agenti dei servizi che la Procura di Roma prova a portare a processo siano stati indagati dal Cairo apre a molte domande. A partire da quella più dirimente: seppur si tratti di ordinamenti diversi, l’ostinazione egiziana a non fornire gli indirizzi – necessari a notificarne l’incriminazione in Italia e dunque a processarli in contumacia – di ex dipendenti dello Stato egiziano (da questo indagati per lo stesso reato) è l’ennesima prova dell’arrogante assenza di collaborazione, una presa in giro politica che i governi italiani di ogni colore continuano a «premiare» con un trattamento speciale fatto di accordi commerciali e militari inamovibili.

Dopo la stretta di mano di Meloni e al-Sisi, a Sharm el-Sheikh prosegue la conferenza sul clima su cui pesa come un macigno la repressione egiziana. Ieri a dare pessimo spettacolo di sé è stato il deputato Amr Darwish, portato via di forza da una tavola rotonda dopo aver aggredito Sana’a Seif, attivista egiziana e sorella di Alaa Abdel Fattah, il più noto dei prigionieri politici.

SANA’A parlava quando Darwish ha iniziato a urlarle in faccia, chiedendo come mai definisse il fratello «detenuto politico» e perché la sua famiglia mendicasse aiuto internazionale per attaccare l’Egitto. Le ha strappato via il microfono, prima di essere portato via di peso.

Ma, nonostante i tentativi anche imbarazzanti di soffocare il dissenso, per il secondo giorno consecutivo di Cop27 il nome di Abdel Fattah, in sciopero della fame da oltre 215 giorni e della sete da lunedì, è stato ripetuto spesso. Prima dal premier britannico Sunak, poi dal cancelliere tedesco Scholz, infine dall’Onu: Volker Turk, alto commissario per i diritti umani, ha chiesto «al governo egiziano di rilasciare subito Abdel Fattah e fornirgli cure mediche. Lo sciopero della fame e della sete ne pone a rischio la vita».