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Recuperando Giacomo

Attori colombiani interpretano "La morte di Giacomo Turra" basata sul libro di German Castro Caycedo del 1997Attori colombiani interpretano "La morte di Giacomo Turra" basata sul libro di German Castro Caycedo del 1997 – Ansa

Storie Militante padovano del Pedro, Giacomo Turra 29 anni fa fu ammazzato di botte dalla polizia in Colombia. Tre suoi compagni partirono per fare luce. E lo raccontarono sul manifesto. Un viaggio che fu un atto di amore. Ospiti nella casa di un colonnello dell’ambasciata. Solo oggi una commissione americana ha riconosciuto che fu un omicidio di stato

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 31 maggio 2024

A volte accadono cose che apparentemente non cambiano nulla di quello che è stato, e nemmeno di quello che è. Come il riconoscimento da parte della Commissione Interamericana per i diritti umani che arriva solo adesso, trent’anni dopo i fatti, di un omicidio di stato in Colombia, quello di Giacomo Turra, studente e attivista padovano, ammazzato di botte da una pattuglia della polizia a Cartagena, la notte del 3 settembre 1995. «Potevano dirlo almeno con suo papà ancora in vita» ha dichiarato la mamma di Giacomo, Simonetta Boranga, ricordando quanto quel padre, insieme a lei e a tutta la famiglia, avesse combattuto per avere giustizia.

Quel figlio gli era stato portato via, ma siccome quelli che lo avevano fatto portavano una divisa non c’è stato uno straccio di tribunale in Colombia che li abbia mai giudicati colpevoli.

Sisto Turra, quel padre, era una persona meravigliosa e raffinata. Primario di ortopedia e professore universitario, era uno fuori dagli schemi. Questo Giacomo l’aveva preso certo da lui. Con il bicchiere di whisky in mano, in mezzo ad una nuvola di fumo di sigaretta sempre accesa. Un personaggio dei romanzi di Jean Claude Izzo o di Massimo Carlotto, con quel parlare calmo, impastato, e quegli occhi azzurri che bucavano.

SE NON CI FOSSE DELL’ALTRO, la notizia della presa di posizione della Commissione Interamericana potrebbe sembrare inutile. Gli assassini di Giacomo, mai sospesi dal servizio, chissà quanti altri crimini possano avere commesso. Mario Paciolla, ucciso anche lui in Colombia, e Giulio Regeni, seviziato fino alla morte dagli uomini di Al Sisi in Egitto, stanno lì a dirci, ogni giorno, quanto la «ragion di Stato», nelle sue varie declinazioni e latitudini, possa degradare la giustizia per garantire ai manovali dell’orrore in divisa di farla franca.

L’impunità per i «servitori dello Stato» riguarda tutti i continenti, una piaga globale storicamente determinata. Non risparmia nessuno, nemmeno quei paesi, come i nostri, che sbandierano il loro alto tasso di democrazia. Figurarsi la Colombia. Eppure la nota della Commissione Interamericana, invece di scivolare via come acqua fresca, ha riattivato un circuito di memoria particolare, un passaparola fatto di pezzi di racconto tra quelli di noi che c’erano allora, trent’anni fa. Forse solo oggi, con questa distanza di tempo, riusciamo a comprendere davvero ciò che accadde in noi, e fuori di noi, in seguito a quell’omicidio.

Giacomo Turra
Giacomo Turra

Perché Giacomo era un fratello, un amico, un compagno di mille battaglie e quando ce l’hanno portato via, è cambiata la nostra vita. C’è dell’altro, sotto questa storia, ed è la potenza che può assumere l’amore per una persona che sta al tuo fianco e che poi, di colpo, non c’è più.

Quando ci raggiunse la notizia della sua morte, in quei primi giorni di settembre, eravamo impietriti. Giacomo era una di quelle presenze, al centro sociale Pedro, nelle piazze, nei collettivi universitari, alle feste di Radio Sherwood, che si avvertivano subito. Fuori da ogni schema della classica militanza, giocava da creativo dello spiazzamento, un vero artista delle relazioni non convenzionali. Un «irregolare» prezioso, di quelli che in una comunità di destino e di progetto quale ci sentivamo, portano un valore aggiunto potente.

GIACOMO ERA GIACOMO. Uno capace di mettersi in testa al corteo, tra noi e la celere in tenuta antisommossa con un tamburo «perché le manifestazioni solo con gli slogan sono tristi». In quella straordinaria stagione della nostra vita, a cavallo degli Anni 90 che abbiamo percorso sempre correndo, a volte inseguiti e altre inseguendo, si palesavano queste pietre preziose che rendevano un tesoro quella nostra forma di vita in lotta. Sono stati tanti e tante, ed ognuno ha segnato per sempre il nostro cammino.
Senza Giacomo, avremmo dovuto prepararci ad un vuoto pesante.

La sua improvvisa, ingiusta, violenta, inaccettabile sparizione dalla nostra dimensione individuale e collettiva, provocava una voragine, che dovevamo per forza riempire di qualcosa. Sapevamo senza dircelo che la rabbia, che abbondava, non avrebbe riempito niente, perché alla fine è un gas venefico e volatile. Il senso di quel legame fortissimo che c’era tra noi invece aveva la sostanza dell’amore. Lo amavamo profondamente, ognuno alla sua maniera, quel compagno, quell’amico fraterno.

L’assemblea del comitato di gestione del Pedro, allora si chiamava così, decise in fretta. Le autorità colombiane avevano liquidato il caso come «overdose di cocaina». A Padova la notizia era rimbalzata in maniera classica e quella verità faceva anche comodo a molti. In fin dei conti era pur sempre uno del Pedro, uno dei collettivi. Uno delle piazze. In fin dei conti una testa calda. In fin dei conti gioventù bruciata. In fin dei conti poteva stare a casa. Lo spettro del «meglio lasciare tutto come sta», che in quella città non ha mai smesso di aleggiare, appariva sui giornali e nelle chiacchiere da bar.

Ma noi decidemmo, in quella assemblea, che non sarebbe andata così. Dovevamo partire, andare in Colombia, fare la «controinchiesta». Quel termine l’avevamo imparato dai nostri compagni e compagne degli Anni 70. E poi, i più vecchi tra noi, l’avevano vissuto con la storia di Pedro, Pietro Maria Walter Greco, ucciso da agenti della Digos e del Sisde il 9 marzo di dieci anni prima, nel 1985. Le conferme che non si trattava di un incidente ma di tortura ed assassinio le avemmo da Sisto Turra, il padre di Giacomo.

Era andato in Colombia, gli avevano mostrato un corpo irriconoscibile, massacrato, spezzato come la voce con la quale ce lo stava raccontando, lì in mezzo all’assemblea del Pedro. Pochi giorni dopo, io e Sisto eravamo a Roma, convocati alla Farnesina. La notizia che volevamo partire per la Colombia era giunta anche al governo. «Vi ammazzano». «Proteggeteci voi, noi comunque andiamo». Avevo parlato con quelli del manifesto. «Tu scrivi da lì, ti pubblichiamo noi». E poi con il Mattino di Padova, e anche con loro l’accordo c’era.

IL FUNZIONARIO della Farnesina si era fatto promettere che saremmo andati a stare in una casa di un loro agente, a Bogotà. Così, una volta arrivati, conoscemmo il colonnello Piero Innocenti, che era lì in missione antinarcos e antiterrorismo, aggregato all’ambasciata italiana. «Piacere sono il colonnello Innocenti». «Piacere siamo del centro sociale occupato Pedro di Padova». A Bogotà, in una casa blindata, tre di un centro sociale, un ufficiale della polizia italiana e le guardie armate alla porta. Ma noi volevamo parlare, andare a vedere, scrivere la verità.

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Auto blindate, colloqui segreti con una giudice coraggiosa fatti dentro un ristorante russo. E poi da Gabriel Garcia Marquez a Cartagena, dove ci disse che la sua scuola di giornalismo avrebbe seguito il caso. E a mangiare nel ristorante cinese dove Giacomo era stato sequestrato dalla polizia, a incontrare la padrona del Residence dove alloggiava. E con uno dei testimoni, minacciato e picchiato dalla polizia proprio perché voleva raccontare com’era andata veramente. Le telefonate dagli hotel a casa, al Pedro, per aggiornare tutti. E gli articoli, ogni sera, da inviare al manifesto e al Mattino.

Furono tre settimane incredibili. Mille cose, le più pazzesche, da scriverci un libro. Era come se fossimo andati a riprenderci il nostro Giacomo e per mano lo avessimo portato via da quel luogo di morte e bugie. Sarà stato lui a proteggerci, perché davvero, a pensarci ora, andare lì a sfidare la polizia colombiana fu una impresa folle. Ma ci siamo nutriti in tutto questo tempo di quella sana follia, per evitare di soccombere ogni volta che il potere ti mostra il suo volto più feroce.

«Siamo un esercito di sognatori, per questo siamo invincibili» ci insegnava il subcomandante Marcos a quel tempo. Ed è stato proprio così. E Giacomo, tutti e tutte insieme, l’abbiamo riportato a casa.

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