Rebecca Wait, quell’inquietudine dal volto famigliare
L'intervista Parla la scrittrice inglese che pubblica «L’eredità dei padri» per e/o. Un noir che indaga i traumi di una piccola comunità sullo sfondo della natura selvaggia delle isole Ebridi. «Osservo persone in una realtà claustrofobica dove le certezze morali vanno alla deriva e le uniche regole sono quelle del gruppo»
L'intervista Parla la scrittrice inglese che pubblica «L’eredità dei padri» per e/o. Un noir che indaga i traumi di una piccola comunità sullo sfondo della natura selvaggia delle isole Ebridi. «Osservo persone in una realtà claustrofobica dove le certezze morali vanno alla deriva e le uniche regole sono quelle del gruppo»
Sono passati più di vent’anni da quando tutto è accaduto, da quanto la sua vita, e quella di ogni altro abitante dell’isola è cambiata per sempre. Tommy se ne è andato che era ancora un ragazzino e non ha messo più piede a Litta, una delle più piccole tra le isole Ebridi, l’arcipelago che sorge al largo della costa occidentale della Scozia, qualche chilometro di spiagge rocciose e rilievi immersi nel verde, battuti dalle tempeste che arrivano dal mare e da un vento di pioggia che rende la primavera altrettanto cupa dell’inverno. È l’unico sopravvissuto alla strage della sua famiglia: prima di spararsi con lo stesso fucile da caccia, il padre ha ucciso la moglie, suo fratello Nicky, che all’epoca aveva dieci anni, e la piccola Beth, l’ultima arrivata, solo tre anni.
Tommy è scampato all’eccidio nascondendosi in un armadio, ma da quel momento ciò che era accaduto non ha mai smesso di ripresentarsi nei suoi sogni come nei suoi pensieri da sveglio, facendolo restare quel bambino terrorizzato, e poi via via un giovane aggressivo e pieno di rabbia, anche mentre il suo corpo cresceva e lui diventava un adulto. Così, quando decide di tornare sull’isola non lo fa per una libera scelta ma perché è consapevole che solo affrontando quel tragico passato potrà guardare davvero dentro se stesso e tentare di vivere la propria vita. Intorno a sé trova però una comunità, le poche decine di persone che vivono ancora a Litta, anch’essa rimasta ferma al momento della strage e che, tra verità negate e segreti inconfessabili, non riesce a fare i conti fino in fondo con quella sanguinosa esplosione di violenza che non smette di interrogare ciascuno degli abitanti.
Già autrice di The View on the Way Down (2013) e The Followers (2015), con L’eredità dei padri (e/o, pp. 267, euro 18, traduzione di Claudia Lionetti) Rebecca Wait si conferma come una delle voci più suggestive del noir psicologico europeo. Originaria dell’Oxfordshire, vive a Londra dove insegna nelle scuole medie.
Malgrado il terribile fatto di sangue che ha condizionato la vita di tutti i personaggi sia avvenuto molti anni addietro, ne «L’eredità dei padri» si respira una tensione costante e si ha l’impressione che una nuova minaccia possa tornare a presentarsi in qualsiasi momento.
La suspense è sempre un elemento cruciale nei miei romanzi. Ma, ragionando in termini più complessi, devo anche ammettere di essere particolarmente interessata al modo in cui il passato continua ad influenzare il presente. Ciascuno di noi è il prodotto della propria storia, di quello che abbiamo alle spalle che continua ad influenzarci in modi evidenti come, spesso, più sottili. Tommy, il protagonista del libro, è un esempio in qualche modo estremo di questa condizione: anche se ora è un adulto e la strage di cui si è macchiato suo padre è avvenuta quando era bambino, lui vive ancora con quel senso di minaccia costante addosso, e questo influenza tutto ciò che fa, ogni decisione che prende. Per lui il passato è sempre presente.
Il modo in cui è costruito il romanzo sembra far pensare alla tragedia greca: a prima vista l’unico protagonista è Tommy, ma poi pian piano emergono anche altre voci che hanno pari dignità e un «coro» di personaggi altrettanto coinvolti in quanto è accaduto.
Prima di tutto per me era davvero importante includere nel racconto la prospettiva di Katrina, la madre di Tommy, uccisa dal marito. Allo stesso modo ho scelto deliberatamente di non concedere neppure una pagina «al punto di vista dell’assassino». Troppo spesso, nel raccontare «le stragi famigliari», i media si concentrano proprio sulla figura dell’omicida maschio: si dedica molto tempo a speculare su quale possa essere stato il suo movente, cosa possa averlo «spinto» a commettere un crimine così orribile. L’individualità della vittima femminile si perde o si cancella. Volevo invertire questo tipo di narrazione: John, che uccide la sua famiglia, non ha voce nel mio libro, le sue vittime invece la hanno. Inoltre, accanto a chi ha fatto le spese in vario modo di quella violenza, a cominciare da Tommy e Katrina, mi interessava indagare il modo in cui un evento terribile come questo colpisce non solo le persone che vi si trovano al centro, ma anche quelle che stanno intorno. Le increspature si diffondono verso l’esterno e tutti ne sentono su di sé gli effetti per anni. Andava perciò esplorato l’impatto di quella vicenda sull’intera comunità, tanto più che si trattava di una realtà così piccola: una comunità in cui tutti si conoscono, o almeno credono di conoscersi. E rendersi conto di quanto poco conosci in realtà coloro che hai intorno, si tratti di parenti, amici o vicini è davvero destabilizzante.
Il romanzo è ambientato nelle Ebridi e trasforma il fascino selvaggio di quelle isole scozzesi, in qualcosa di terribile e minaccioso. Nella scelta, accanto all’elemento dell’isolamento geografico sembra aver pesato anche la durezza della vita sull’isola e il fatto che abbia plasmato il carattere degli abitanti.
È vero, non è solo il loro essere isolate e lontane, ma anche la combinazione di bellezza e desolazione che caratterizza la vita nelle Ebridi che mi ha fatto decidere per questo scenario. In un tale scenario si può provare la sensazione che ogni cosa ed ogni emozione vengano spogliate di tutto, riportate alle sole ossa nude, così che il potenziale di violenza che è forse dentro ognuno di noi sembra più vicino alla superficie. Inoltre, poiché l’isola è così remota e desolata, i vicini sono molto più dipendenti l’uno dall’altro di quanto non lo sarebbero sulla terraferma. E quando è proprio «uno di loro» a commettere l’atto di violenza che è al centro del romanzo, questo costringe tutti nella comunità a riesaminare ciò che pensavano di sapere. Degli altri, ma in fondo anche di sé.
Anche se siamo lontani dai cliché del noir, il romanzo è pervaso da un’atmosfera inquietante a partire dagli scambi tra i diversi personaggi che sembrano sempre lasciare più zone d’ombra di quanta luce non riescano a produrre. Viene da pensare alle opere di Patricia Highsmith. È una scrittrice di cui condivide l’approccio al «genere»?
Highsmith è un brillante esempio dell’estrema versatilità della scrittura poliziesca. Sebbene il suo lavoro ruoti spesso attorno a uno o più crimini, e i suoi romanzi siano meravigliosamente pieni di suspense, il suo obiettivo principale è la psicologia dei personaggi: e questo rende le sue trame plausibili in modo agghiacciante. È esattamente il tipo di scrittura che ammiro di più. Mi piace scrivere, e ancor prima leggere, proprio perché mi interessano molto il carattere e le motivazioni degli altri. In questo senso, credo che l’ideale sia combinare le trame brillanti della narrativa poliziesca con l’attenta dissezione della personalità dei personaggi che ci aspettiamo di trovare nelle opere letterarie estranee al genere.
Guardando all’insieme delle sue opere si ha l’impressione che privilegi i contesti famigliari o i piccoli gruppi e il modo in cui regole non scritte ma inviolabili, interazioni malate o difficili possono trasformarsi in minacce o violenza. Cosa rende questi ambiti privilegiati a trasformarsi in «scene del crimine»?
Effettivamente mi interessano soprattutto le comunità chiuse: una famiglia «malata» nel mio primo romanzo, una setta nel secondo e un’isola remota per L’eredità dei padri. Voglio osservare come si comportano le persone sottoposte alla pressione e alle sollecitazioni di un ambiente claustrofobico. Senza contare che non avendo accesso ad un contesto più ampio, talvolta le certezze morali universali possono andare alla deriva, e le uniche regole che restano sono quelle del gruppo. E, naturalmente, l’incapacità di fuggire, da un’isola come da una setta, è una condizione perfetta per un romanzo poliziesco: un modo efficace per aumentare la tensione.
In un’intervista ha spiegato come il suo primo romanzo, «The View on the Way Down», fosse in parte ispirato ad un periodo di depressione che ha vissuto durante l’adolescenza. Scrivere l’ha aiutata a trovare una nuova consapevolezza di sé?
Si è trattato del periodo peggiore della mia vita. Mi sono sforzato di scriverne una volta che ho iniziato a stare meglio. Ciò che mi era successo mi era sembrato così brutale e inspiegabile che stavo cercando di trovare un modo per capirlo. Ed è utile poter articolare le proprie esperienze, non solo per il proprio benessere, ma soprattutto per uno scrittore. Quando scrivo di altre persone, quello che faccio veramente è scrivere di diverse possibili versioni di me stessa. Tutta la fiction è in una certa misura autobiografica. Immaginiamo altre vite, ma l’unica vita interiore a cui possiamo davvero accedere è la nostra. Quindi è necessario conoscerla bene.
Lei insegna alle medie: i ragazzi con i quali ha che fare le servono anche da ispirazione? Ne «L’eredità dei padri», ad esempio, la memoria di molti personaggi rimanda all’infanzia, alle esperienze fatte allora…
Credo di aver scritto sempre dell’infanzia, in tutti i miei romanzi. Trovo in particolare di grande interesse il modo in cui le nostre esperienze infantili influenzano le risposte che diamo alle cose e le decisioni che assumiamo una volta diventati adulti. Perciò, è come se la nostra infanzia fosse visibilmente presente accanto a noi per tutta la nostra vita adulta. E questo, che ne siamo consapevoli o meno. Penso anche che da adulti a volte dimentichiamo quanto intensa possa essere la vita per i bambini. Le esperienze che fanno, agli adulti possono sembrare banali, ma per un bambino, senza un contesto più ampio nel quale inserirle, sono tutto ciò di cui è composto il suo mondo. I loro dolori e le loro gioie sono intensi quanto quelli degli adulti, anzi, anche di più. E danno forma a ciò diventeranno. A ciò che siamo diventati tutti noi.
Definireste «L’eredità dei padri» come un romanzo di formazione, anche se si compie nel segno del dolore e della violenza?
Probabilmente lo definirei un romanzo di «messa a punto» più che un romanzo di formazione. Tommy non si riprenderà mai del tutto da ciò che gli è successo quando era bambino. In una certa misura sarà sempre intrappolato in quelle poche ore terribili vissute quando aveva solo otto anni. Ma ciò che raggiunge e conquista nel corso del romanzo è un modo di guardare al passato in forma diversa: l’essere in grado di convivere con ciò che è accaduto senza provare costantemente la stessa, insopportabile, intensità di dolore. Pagina dopo pagina emerge come per lui ci possa essere una speranza. Del resto è coraggioso. Malgrado ciò che ha subito continua a vivere.
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