Cultura

Rare orchidee del colonialismo

Rare orchidee del colonialismoInstallazione Orchidelirium, padiglione estone – Foto di Matilde Cenci

59/a Biennale d'arte di Venezia Il padiglione dell'Estonia, ospite nella sede dell'Olanda, racconta una storia di botanica predatoria, il dominio europeo in Indonesia che viaggiò sulle corolle dei fiori. Parla Corina L. Apostol, curatrice della mostra «Orchidelirium. An appetite for abudance». «La pittrice Emilie Saal raffigurava fiori sempre in sboccio, non esemplari viventi specifici, ma rappresentazioni idealizzate. Ha inventato un’iconografia standardizzata combinando più specie, in modo che le immagini includessero le informazioni desiderate dagli scienziati. Come lei, la mostra si propone di fare proprio questo: un 'incrocio' per complicare le definizioni di nazionalità, appartenenza e sfruttamento coloniale di ciò che è considerato esotico»

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 21 aprile 2022

La percezione del nostro abitare il pianeta è cambiata e la Biennale – che torna in Laguna dopo lo slittamento dovuto alla pandemia con apertura al pubblico sabato 23 – registra una nuova attitudine, spostando l’attenzione sulle altre specie viventi. Piante e vegetazione invadono così l’immaginario e, a volte, raccontano storie di soprusi «combattute» sulle corolle dei fiori. L’Estonia approda ai Giardini come ospite nello storico padiglione olandese disegnato da Rietveld e lo fa grazie alla mostra Orchidelirium: An Appetite for Abundance, a cura di Corina L. Apostol (dirige la Tallinn Art Hall). Indaga proprio fra le maglie di una «botanica predatoria» che coinvolge vari paesi (Olanda compresa), in collaborazione con gli artisti estoni Kristina Norman e Bita Razavi.

«Il nostro progetto parte dalla storia dimenticata dell’artista e viaggiatrice Emilie Rosalie Saal: la sua figura riassume in sé le vicende intrecciate di autodeterminazione estone, colonialismo occidentale, botanica, scienza e arte», spiega Apostol.

In che modo le orchidee sono protagoniste della colonizzazione in Indonesia?
Ho scelto il titolo del progetto in riferimento alla mania dell’orchidea esplosa nel XIX secolo, quasi un’isteria. Sebbene siano ormai comuni nella nostra società, all’epoca erano un possesso esclusivo dell’élite e gli esploratori venivano inviati a rintracciare varietà esotiche per la felicità dei collezionisti. Emilie Saal si è dedicata allo studio di fiori, frutti e piante tropicali, che ha ritratto in centinaia di vivaci dipinti e litografie nel corso di due decenni. Il suo lavoro di artista è stato reso possibile dalla sua posizione di europea, bianca, nell’Indonesia colonizzata e, ovviamente, dal lavoro domestico di donne locali, impiegate nella sua famiglia. Scienziati e botanici mostrarono un notevole interesse per la sua arte e poté contare anche sulla collaborazione dei Royal Dutch Botanical Gardens. Gli studiosi erano deliziati dalla sua capacità di catturare alcune delle piante più rare sulla terra, tra cui oltre 100 orchidee, fiori ornamentali prediletti dai reali.

La mostra veneziana ci dice che la botanica smaschera i meccanismi dei sistemi di potere…
Orchidelirium: An Appetite for Abundance è immaginata come un ambiente immersivo, realizzato insieme a Kristina Norman, con il contributo dell’artista Bita Razavi e del coreografo e ballerino Eko Surpiyanto. Il padiglione estone si trasforma in un giardino concettuale, un deposito di conoscenza in cui storia, presente ed ecologia entrano in relazione dinamica: c’è la natura e ci sono le tendenze contraddittorie dell’umanità – costruzione, conservazione e distruzione. Il tutto setacciato attraverso una lente femminista e decoloniale. Ed evidenziando il desiderio di controllo degli stessi scienziati e artisti. Come possiamo carpire la verità consumando immagini di un ecosistema riformulato attraverso le vecchie logiche del dominio, predatorie?

Può illustrarci la biografia di Emilie Rosalie Saal e spiegare perché il suo personaggio è assunto a simbolo?
Nata Emily Rosalie Macsy (1871 – 1954), è spesso citata come la moglie dello scrittore Andres Saal (1861–1931), conosciuto per i suoi romanzi sull’indipendenza estone e la lotta di liberazione, nonché per i suoi saggi critici sul ruolo dell’esercito coloniale olandese in Indonesia. Nacque a Tartu (allora parte dell’Impero russo), studiò arte a Pietrogrado, poi raggiunse il marito a Giava (Indie orientali olandesi) tra il 1899 e il 1920. Mentre lui dirigeva l’Ufficio di fotografia militare a Batavia (Jakarta), lei si dedicò allo studio di fiori, frutti e piante tropicali. I Saal si ritirarono a Los Angeles, in California, nel 1920 e nel 1926 le fu tributato l’omaggio di un’ampia mostra con trecento opere, nell’Exposition Park del Los Angeles Museum of Science and Art. Morì naturalizzata americana, a Hollywood, nel 1954. La narrazione corrente cerca di inquadrare la storia dell’Estonia come quella di un paese «derubato» da potenze straniere, ma Orchidelirium va più in profondità: esplora cosa succede quando il colonizzato diventa a sua volta colonizzatore altrove. Se tiriamo le fila della vita di Emilie, affiora un quadro complesso: artista ignorata dalla storia, emancipatasi a spese di altre donne (indonesiane) con la capacità di catturare l’aspetto delle piante esotiche, che era anche una pratica comune di dominio in Europa. Saal raffigurava fiori sempre in sboccio, non esemplari viventi specifici, ma rappresentazioni idealizzate. Ha inventato un’iconografia standardizzata combinando più specie, in modo che le immagini includessero le informazioni desiderate dagli scienziati. Come lei, la mostra si propone di fare proprio questo: un «incrocio» per complicare le definizioni storiche di nazionalità, appartenenza e sfruttamento coloniale di ciò che è considerato «esotico». Sin dall’inizio del XIX secolo, l’applicazione principale della botanica è stata lo sfruttamento della natura per un vantaggio economico e per la costruzione di imperi. Ha imposto una prospettiva eurocentrica e oscurato la sapienza indigena delle piante.

Possiamo rilevare qualche somiglianza con la mania dei tulipani nel Secolo d’oro?
Originariamente i tulipani crescevano anche in Asia centrale e la «tulipmania» si manifestò per la prima volta nel XVI secolo in Turchia, durante il periodo dell’impero ottomano quando i sultani chiedevano che i fiori fossero coltivati per i loro piaceri. In seguito divennero estremamente ricercati nei Paesi Bassi, durante il cosiddetto «Secolo d’oro» dell’impero olandese quando si sviluppò una formidabile potenza marittima ed economica. Come le orchidee, i tulipani iniziarono a essere introdotti in Europa per la loro bellezza e furono create specie ibride per stupire i collezionisti. Erano un indicatore di status e privilegio. I benefici dei fiori non interessavano, solo le loro qualità estetiche. Gli artisti botanici sguinzagliati per il mondo ne rappresentavano gli esemplari e li raccoglievano negli erbari. C’era grande avidità e una gara a chi ne «conquistasse» di più: un processo che ha distrutto gli ecosistemi e portato all’estinzione di molte varietà.

Le orchidee rappresentano un «avvertimento» sui disastri ambientali anche attuali?
Il film Thirst di Kristina Norman (proiettato in mostra) ha come protagoniste le orchidee, insieme alla torba, un tipo di terreno raccolto dalle torbiere in Estonia, utilizzato per sostenerne la crescita. Esplora le conseguenze sociali ed ecologiche contemporanee del fascino di Emilie Saal per quei fiori tropicali: di certo lei disegnandoli allargò il campo scientifico ma con una mentalità basata su pratiche estrattive. Allo stesso tempo, un video-intervento del coreografo e ballerino indonesiano Eko Supriyanto, girato sull’isola di Giava, affronta la scomparsa delle conoscenze naturali delle popolazioni locali e le strutture permanenti del colonialismo – ambiente, genere e razzismo.

Cosa ci racconta, invece, la mostra dell’Estonia moderna?
Una delle nostre domande centrali è: «L’Impero coloniale è ancora con noi»?. La questione è affrontata nella trilogia di film di Kristina Norman. Nei primi due, Shelter e Rip-off, i personaggi sono donne-doppleganger, prigioniere due volte. Impersonate dalle ballerine Karolin Poska, Mari Mägi, Teresa Silva e dall’artista Bita Razavi, propongono diversi scenari dell’emancipazione rivelando la difficoltà di mantenere la propria indipendenza e identità. Il terzo film Thirst (sull’industria della torba estone e sul collegamento con il commercio olandese delle orchidee, ndr), racconta le monocolture di questi fiori lavorati con macchinari che derivano da esemplari un tempo fiorenti in Indonesia. Rivela l’estensione delle strutture neocoloniali che creano sorprendenti associazioni tra nord, ovest e sud. Le connessioni tra i devastanti cambiamenti ambientali in atto sia in Estonia che in Indonesia (pur con intensità diverse), l’estinzione delle orchidee e di altre piante autoctone, così come degli animali, sono dolorosamente evidenti.
Quando abbiamo iniziato a fare ricerche su Emilie Saal, ci interessava la sua esperienza di migrante dall’Estonia (un paese che all’epoca non esisteva nemmeno sulla mappa dell’Europa, essendo parte dell’Impero russo): lei, bianca della upper class olandese in Indonesia, si spostò negli Stati Uniti, diventando cittadina americana della classe medio-alta (i diritti delle donne furono riconosciuti nel 1920 quando si stabilì a Los Angeles, California). Vivendo anch’io come immigrata per la maggior parte della mia vita e avendo lavorato tra Usa, Europa dell’Est, Paesi Baltici sono stata attratta dalla ricerca di una sua possibile evoluzione in tutto quel passare attraverso diversi contesti e esperienze. In Estonia, dove risiedo ora, ho seguito le decisioni politiche intorno ai fenomeni migratori e il modo in cui i locali si sono relazionati alla propria storia di colonizzazione da parte di russi, danesi o, più recentemente, essendo entrati in Ue e Nato che, a loro volta, si basano su imprese coloniali. Negli ultimi anni la migrazione è stata stigmatizzata come negativa. Gli «Altri», razzializzati, sono inquadrati come una minaccia, per la salute pubblica durante la crisi pandemica o per la stabilità nazionale del paese. Spero che questa mostra possa presentare nuovamente l’Estonia come un paese che fa parte di una storia più ampia e sollevare domande su cosa significhi essere l’«Altro».

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