Chiedersi quale sia il proprio posto nel mondo e, una volta individuato, assestarcisi accettando di soffrirne la eventuale marginalità; venire a patti con la propria immagine, quando non coincide con la violenza di ciò che lo sguardo dell’altro ci restituisce; sentirsi radicati nella critica di sé al punto di avvertirla come un presupposto ontologico della propria esistenza: questi i generatori narrativi della prosa di Rachel Cusk nel romanzo che ha scritto durante il ritiro imposto dal Covid, La seconda casa (traduzione di Isabella Pasqualetto, Stile libero Big, pp. 168, euro 16,50 ) dove tutto quel rimestìo di dolore invade la pagina, oscillando fra figurazioni della psiche che prendono persino le sembianze di un diavolo, e la esplicita rinuncia a nascondere la propria sofferenza sotto velature simboliche.

Già parzialmente manifesto nel Lavoro di una vita (il suo memoir datato 2001 sul divenire madre) quel disagio esistenziale sembrava allora identificarsi – disse Rachel Cusk – con la impossibilità di aderire a una serie di «identità parziali che vengono calate addosso alle donne: casalinga, moglie, madre». Poi, una sorta di nuova ribellione, questa volta alle forme codificate della narrativa, aveva portato la scrittrice inglese (di origini canadesi) a scegliere – nella Trilogia Outline – di ritrarre dalla scena il proprio Io, limitandosi a registrare, senza commentarli, i racconti di vite ordinarie che avevano incrociato la sua, per trasferirli in una cornice romanzesca: resterà questo, probabilmente, il contributo maggiore di Rachel Cusk all’aggiornamento del disagio della civiltà sotto forma di letteratura.

Ai margini di una palude
Ora, l’irruzione della voce narrante sulla scena del romanzo è invece prepotente, apodittica, disturbante perché portatrice di un indefinito trauma pregresso, di una esplicitazione della paura di vivere, che la fa sentire come se le cose fossero sempre pronte «a saltarti addosso». E, in effetti, così procede la vita di colei che si presenta come M, la cui sofferenza esistenziale ha motivazioni ben più antiche dei fatti che daranno luogo alla dissestata trama del romanzo: una traballante impalcatura, minacciata da vistose smagliature della consequenzialità logica, come si conviene, d’altronde, al prodotto di una psiche resa instabile da reiterate immersioni nella propria angoscia.

Sul piano dei fatti, tutto o quasi si svolge nell’ambito di una asimmetrica relazione tra la scrittrice M e il pittore L, i cui dipinti – scoperti nel corso di una visita a Parigi – avevano suscitato in lei un senso di tossica familiarità, la rivelazione di un segreto che la riguardava, e che quelle tele sembravano custodire, «come se all’improvviso avessi scoperto le mie vere origini».

M invita dunque il pittore L a raggiungerla nel luogo dove vive con il marito Tony, e dove hanno allestito una seconda casa a mo’ di residenza per artisti, nel mezzo di una palude, sommersa due volte al giorno dal mare: «Il nostro paesaggio – scrive a L prefigurandogli ciò che lo aspetta – è uno di quegli enigmi da cui la gente è attratta, anche se invariabilmente finisce per non capirlo. È un luogo di desolazione e conforto e mistero, e non ha ancora rivelato a nessuno il proprio segreto».

L accetta, poi in una lettera sgarbata comunica di avere scelto un’altra destinazione, e dopo ancora si rifà sentire per annunciare il suo arrivo. Dunque finalmente approda alla palude e prende possesso della casa che nel frattempo M e suo marito hanno riordinato e ridipinto per lui. Non è solo: inaspettatamente ha portato con sé una giovane donna, una ballerina il cui ruolo è tutt’altro che evidente: «sapevo solo – riflette M – che in quel momento era una gigantesca scheggia conficcata nella mia vita, e non avevo idea di come o quando sarei riuscita a estrarla».

Nel raccontare la sua storia, M si rivolge a un tale Jeffers del quale si intuisce che è uno scrittore, forse un poeta, e quasi si scusa con lui rivelandogli di trovare conforto solo nelle opere figurative, non in quelle fatte di parole, «perché [queste] devono attraversare la mia mente per raggiungermi».

I dipinti, invece, sembrano offrire un asilo alla sua mancanza di collocazione nel mondo, una tregua alla necessità di rinegoziare continuamente la propria ragion d’essere. Quelli di L, in particolare, aiutano M, la voce narrante, a separarsi dalla storia della propria vita, ovvero a illudersi di prendere congedo dalle sedimentazioni di remoti dolori: «Vidi, in altre parole, che ero sola, e vidi il dono e il fardello di tale condizione, che mai prima di allora mi erano stati rivelati…».

Tra il report e la finzione
Alla sobrietà stilistica di una prosa che nella Trilogia si concedeva poche emozioni e molta ironia, subentrano qui disturbanti sbandamenti del registro narrativo, mimetici della ricerca di un contatto con la fonte del dolore, che viene nominato rinunciando a ogni mediazione. È un esercizio pericoloso, nel quale Rachel Cusk sembra lanciarsi con una certa sprezzatura delle conseguenze, solidamente radicata in una intelligenza straordinariamente penetrante e del tutto straniera a ogni forma di convenzione, che le permette di avventurarsi in territori narrativi instabili, fra il memoir e il romanzo, fra il report e la finzione.
Qui, L è non soltanto un artista le cui opere non interessano più al mercato, ma anche la trasfigurazione dello scrittore inglese D.H. Lawrence così come compare nel memoir di Mabel Dodge Luhan, che lo ospitò in Messico e ne trasse un libro datato 1932 e titolato Lorenzo in Taos. Niente altro se non l’omaggio a una situazione nella quale si è evidentemente ritrovata, motiva la ripresa di quel memoir da parte di Rachel Cusk; ma quel che più interessa è la sua predilezione per le arti figurative come spazio ideale per accogliere, riflettere e rivelare ciò che di più nascosto concorre a formare la struttura di un carattere: lo testimonia anche il testo commissionato da Palazzo Grassi e titolato Controfigura L’artista e il suo doppio (traduzione di Anna Nadotti e Isabella Pasqualetto, Marsilio, pp. 70, euro 14,00) dedicato a un pittore denominato D, che fa pensare a Georg Baselitz se non altro perché ha derivato dall’abbattimento degli alberi la messa in questione della verticalità: da qui, la prassi di dipingere il mondo capovolto, figure umane con i piedi in alto e la testa in basso. Osservando la serie dei suoi nudi di coppia, la moglie nota angosciata come D l’abbia resa «brutta»: in quei quadri «vede lo spettacolo della propria vita mancata».

Il gesto del pittore sembrerebbe dunque in grado di rendere visibile il lato più disprezzato di sé con cui temono di confrontarsi le donne al centro dei due ultimi libri di Cusk: la moglie di D confida nel fatto di essere almeno in parte sconosciuta al marito, e al tempo stesso si rammarica della distrazione di lui, attribuendola a una sua «carenza di femminilità».

Il suo ragionamento appare contorto, ma non lo è: «Aveva la sensazione che lo sguardo di D avrebbe potuto divorarla senza sforzo. Così il fatto che non lo facesse, che non volesse o non potesse divorarla, le sembrava un rifiuto, come essere spinta sul bordo del piatto».

M, invece, la voce narrante della Seconda casa, sebbene non dipenda sentimentalmente dal pittore che ha deciso di ospitare, tuttavia è irretita dal suo sguardo come fosse un amo capace di pescare nei recessi della sua psiche portando a galla ciò che di sé più teme, ciò che nessuna apparenza sarà in grado di smentire: «Mi sentivo sopraffatta dalla mia sgradevolezza, e tale mi sarei sempre sentita accanto a L… la sensazione di bruttezza o repulsione che mi attanagliava non proveniva da uno sguardo o una realtà esterna, ma da dentro di me. Era come se all’improvviso quell’immagine interiore fosse diventata visibile a tutti».

Sprofondata nell’angoscia che le deriva da un inappagato bisogno di riconoscimento, la voce narrante di M. non sempre detta al romanzo – peraltro traversato da altre figure di contorno – affermazioni coerenti e del tutto decodificabili; ma l’intelligenza speculativa di Rachel Cusk argina in chi legge la tentazione di trovare una quadratura del cerchio, di colmare i buchi tra il prima e il poi, di sostituire l’inconoscibile verità storica della protagonista con una pretesa verità interpretativa, in grado di offrire risposte a questioni che non le richiedono.