Racconti capovolti da un pianeta in via di estinzione
58/a Biennale arte A Venezia, i «tempi interessanti» di Ralph Rugoff si trasformano in modelli disfunzionali di società. C’è anche la storia del primo cosmonauta siriano, oggi metafora di tutti i rifugiati in fuga da guerre. Per il curatore, gli artisti propongono alternative al significato dei ’fatti’, suggerendo altri collegamenti. Un’opera non è riducibile all’idea che tratti una ’questione’
58/a Biennale arte A Venezia, i «tempi interessanti» di Ralph Rugoff si trasformano in modelli disfunzionali di società. C’è anche la storia del primo cosmonauta siriano, oggi metafora di tutti i rifugiati in fuga da guerre. Per il curatore, gli artisti propongono alternative al significato dei ’fatti’, suggerendo altri collegamenti. Un’opera non è riducibile all’idea che tratti una ’questione’
Può un artista trarre conclusioni sull’epoca in cui viviamo se questa non è né singola né omogenea? È la domanda-motore di Ralph Rugoff, curatore americano della 58/a Esposizione internazionale di Venezia. Da qui nascono quei «tempi interessanti» cui fa riferimento il titolo e quella lotta tra significato e sua assenza che, per dirla con Cornelius Castoriadis, permette di aprire una finestra «sul caos dell’essere». D’altronde, è mai esistita un’epoca omogenea?
COSÌ LA MOSTRA May You Live in Interesting Times si trasforma in una proposta esplorativa che, suo malgrado, sfocia in una fabbrica della disfunzionalità, dove anche i corpi risultano deformati, «luoghi» profondamente sconosciuti, prototipi di intelligenze artificiali malate o protesi difettose. Stiamo lambendo le coste di una società interrotta e dobbiamo andare alla ricerca del passato in solitudine, con un atto di volontà, agendo come puntigliosi archeologi che disseppelliscono memorie rapidamente sotterrate. I visitatori dell’arte, sostiene il presidente della Biennale Paolo Baratta, sono ormai dei partner, non dei semplici flâneurs. La domanda sul futuro rimane sospesa, l’incontro con la devianza e la diversità è la strada maestra. Le forme del mondo, reinterpretate dalle sculture, si fermano prima della compiutezza, progettando l’inafferrabilità della vita quotidiana e le sue traiettorie misteriose. Ai Giardini il padiglione centrale, simbolo regale della Biennale stessa, svanisce dietro la nebbia fitta: non è un fenomeno atmosferico, è l’installazione Mi fuma il cervello di Lara Favaretto, che insieme alla scomparsa dell’autore inghiotte pure l’immagine possibile, facendo infuriare soprattutto i fotografi.
ANCHE UNA CASA delle bambole non è più un giocattolo, ma un set del rischio: la statunitense Kaari Upson parte da un modellino vero che un’amica di sua madre aveva realizzato in copia perfetta della loro abitazione e, in scala reale, la riproduce disseminandola di oggetti stranianti: rovescia mobili, inserisce dentiere, farmaci e piercing clitoridei. La stanza, rifugio famigliare, è altamente sconsigliabile, una gabbia delle alterazioni, un panopticon dove precipitano gli incubi. E proprio l’angoscia securitaria è il leit motiv dell’opera dell’italiana Ludovica Carbotta che lungo l’Arsenale piazza una torretta di guardia – disfunzionale anch’essa perché capovolta. In fondo, si era entrati alle Corderie sfidati dallo sguardo inquisitore di una irriducibile come la sudafricana Zanele Muholi, nera, lesbica, fondatrice del Forum for the Empowerment of Women: l’indifferenza non è ammessa.
SE COMUNQUE i tempi interessanti si fanno troppo minacciosi, si può scavare in narrazioni perdute, riannodando trame di storie trascurate. È l’ansia della catalogazione, del cassetto d’archivio a prendere il sopravvento in molti dei lavori esposti in questo percorso che, dall’assunto di partenza, sembra essere sfuggito di mano a Rugoff, mentre è ancora valida l’indicazione di Aby Warburg: è necessario riscoprire «l’antico presente» per riverberare connessioni comuni.
Se dunque l’ottimismo di quei tempi interessanti – come da ricetta curatoriale – si incupisce, la narrazione può catapultarsi nello spazio, visitando altri pianeti, mentre nel nostro proliferano barriere coralline dai colori radioattivi (realizzate a uncinetto da centinaia di ricamatrici che hanno risposto alla call delle sorelle australiane Christine e Margaret Wertheim) e intere città di bozzoli sintetici per una «biopolitica dei sensi», come definisce la coreana Anicka Yi i suoi organismi non umani appesi al soffitto e pieni di liquido amniotico.
Il turco Halil Altindere, invece, racconta la biografia del primo cosmonauta siriano e, attraverso la sua metafora, parla dell’odissea dei rifugiati. Muhammed Ahmed Faris nel 1987 se ne andò tra le stelle insieme ai sovietici e, in omaggio a quel sodalizio, l’installazione dell’artista mima il realismo socialista, con tanto di iperreale (e ironica) monumentalità. «Se i rifugiati siriani nessuno li vuole qui sulla terra, nessuno può vietare loro di andare a colonizzare Marte, essere dei pionieri e vivere lì. Si possono ricostruire città nello spazio dove regni la dignità umana, non la tirannia e l’ingiustizia», afferma Altindere. Faris, nella vita vera, divenne un comandante delle forze aeree, ma nel 2012 ha disertato, preferendo la fuga all’uso delle armi nella guerra civile, contro i suoi stessi concittadini. Ora risiede in Turchia eppure l’esilio non ha cancellato il suo nome: resta un eroe scomodo nel suo stesso paese, con strade e scuole che lo ricordano alle future generazioni.
TORNARE SULLA TERRA è un viaggio tempestoso. Una virata brusca che comporta una serie di shock, tanto che alla fine si sta come quei passeggeri d’aereo che seguono le istruzioni di sicurezza raggomitolati su loro stessi – come ci indica il gigantesco simulacro umano fatto di materiale riciclato di Yin Xiuzhen, posta proprio a metà itinerario come totem esistenziale. Il primo shock prende le sembianze di una macchina-robot per le pulizie la cui pala non fa altro che spazzare via, rumorosamente, un liquido rosso sangue, schizzandolo sul vetro della cabina in cui è rinchiuso questo mostro ruggente. Lo scacco matto è opera dei cinesi Sun Yuan e Peng Yu e quel «netturbino» delle catastrofi aveva fatto già la sua comparsa al Guggenheim di New York nel 2016, come primo step di dispositivi meccanici a confronto con l’umano. Il secondo trauma attende il visitatore proprio dalla parte opposta di quell’orgia di sangue.
È il Muro Ciudad Juárez della messicana Teresa Margolles: l’artista ha preso frammenti reali del muro (provengono da una scuola pubblica dove si verificò una resa dei conti fra mafie) con i segni anche di proiettili e lo ha reinstallato a Venezia, dove era già stato nel 2011. La storia presente e la brutalità cinica della politica trumpiana lo ha tristemente riattualizzato. Margolles, che ha una formazione da medico forense, in ogni sua installazione cerca di rintracciare le impronte di corpi violati, come quando immette il pubblico in una camera umida e nebbiosa, i cui vapori sono quelli dell’acqua con cui nell’obitorio di Città del Messico hanno lavato i cadaveri. Procede a modo suo nella stessa direzione del recupero testimoniale anche l’indiana Shilpa Gupta con un potente lavoro sonoro, forse il più bello di tutta la mostra, For, in your tongue, I cannot fit (2017-18).
AL BUIO, si entra religiosamente in silenzio in una vasta stanza dove ordinatamente sono disposti piccoli leggii con libri aperti e sopra ognuno un microfono. In una babele di lingue, mentre la attraversiamo, ascoltiamo le voci di poeti incarcerati e censurati per i loro versi. Il primo, cui è tributato il titolo dell’opera è l’azero Imadaddin Nasimi, nato a Shamakhi nel 1369. Le sua filosofia ispirata al sufismo fu considerata blasfema dalle autorità religiose del periodo e, secondo tradizione, fu imprigionato e scuoiato vivo ad Aleppo. La disintegrazione del suo corpo non ha fermato però la longevità della sua poesia, rimasta vivissima al posto dei suoi persecutori divenuti cenere.
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