Sfugge ancora che uno dei problemi più delicati che affliggeranno la governance dei processi economici e sociali sarà la capacità di articolare l’ecologia con la questione sociale, risolvendo il dilemma tra sviluppo economico e rischio ecologico. Tale dilemma, a mio avviso, va superato operando con saggezza e decisione sui due lati del corno. Dal lato economico muovendo con maggiore decisione nella direzione della “qualità” dello sviluppo, superando l’idolatria acritica del Pil, e dal lato ecologico, accompagnando anche gli obbiettivi più coraggiosi di contrasto ai micidiali fattori di distruzione del Pianeta con “missioni” economiche e sociali che investano le politiche industriali e quelle del mercato del lavoro. Guidati da una parola magica: riconversione. Riconversione delle attività produttive e delle competenze lavorative.

L’adesione convinta della maggioranza della popolazione alla transizione ecologica richiede il superamento della sensazione che l’alternativa sia tra morte per catastrofe ecologica e morte per catastrofe economica. O, più semplicemente, per morte di fame. Tuttavia per superare in modo corretto tale tragica antinomia occorrerebbe che tutti, proprio tutti, imprese e lavoratori, si convincessero che stiamo spensieratamente ballando sull’orlo di un precipizio, e che abbiamo poco tempo per salvarci.

Una tale consapevolezza dovrebbe guidarci in due direzioni: quella di non allontanare nel tempo gli impegni per la salvezza del Pianeta, anche quelli più coraggiosi, e quella di non definirli burocraticamente, senza corredarli, sia pure a grandi linee, di obbiettivi di riconversione. Per questo motivo ritengo del tutto irresponsabile il gioire per il fatto che si sia semplicemente chiesto di congelare il passaggio al motore elettrico, per quanto valide possano essere le critiche che muovono dall’esigenza di operare su diverse e differenziate risorse tecnologiche.

Tuttavia non possiamo prenderci in giro. Ciò che occorrerebbe comprendere in tempo è che ogni obbiettivo della transizione ecologica sembrerà sempre troppo ravvicinato se non ci si prepara a stendere subito la rete protettiva sul terreno. In buona sostanza bisogna dire chiaramente che la transizione ecologica ha dei costi. L’impegno di fondo che dovrebbe illuminare l’azione, non solo della sinistra, ma di tutte le forze democratiche, rimane quello di declinare il rapporto tra questione ambientale e giustizia sociale in modo tale da non far ricadere quei costi esclusivamente sul mondo del lavoro. Questa consapevolezza mi sembra ancora del tutto assente.

La ragione principale delle attuali difficoltà della transizione sta nel fatto che non si avvertono strategie politiche ed economiche che rendano visibile come una ecologia sociale, che io chiamo ecosocialista, possa operare verso una coalizione ampia di interessi all’interno di tutto il mondo del lavoro – i lavoratori e le imprese disposte a operare al di fuori del capitalismo predatorio- nella direzione di un nuovo modello di sviluppo. Per fare convergere giustizia sociale e giustizia climatica occorre che dal “lato verde” si esca da un mero ecologismo comportamentale, che limitandosi agli stili di vita, non va alle radici dei fondamentali problemi strutturali e delle antinomie che rischiano di colpire principalmente il mondo del lavoro e le classi medie. Dal “lato sociale”, si dovrebbe invece mettere con maggiore decisione al centro la funzione di un intervento pubblico capace di indirizzare gli investimenti. Con la consapevolezza che non esiste, di per se, un capitalismo green. Ma anche questo è insufficiente. Occorre che le istituzioni europee incomincino a sospettare che la transizione ecologica non può ridursi a “buonismo ecologico”, senza avvertire che è del tutto risibile limitarsi a fornire benefici economici ai virtuosi che fanno bene i compiti a casa.

I compiti ai quali mi sono fin qui riferito non possono essere svolti isolatamente, paese per paese. Il problema dell’industria automobilistica non può interessare solo Germania e Italia, e lo stesso vale per le differenti vocazioni agricole dei vari Paesi. A quale integrazione, tra le singole nazioni e la complessiva economia europea, si sta pensando? E, soprattutto, come si cerca, sul piano sociale, di riequilibrare i destini di coloro che potrebbero perdere e di coloro che ci guadagnerebbero dalla transazione?

Quale cultura della programmazione democratica e cooperativa sul piano europeo sta cercando, non solo attraverso generici traguardi astratti, di mettere in campo le nuove filiere della transizione (solare, eolico, sviluppo di nuove tecnologie ecc. )? Si rende pertanto necessaria una struttura di orientamento che si mobiliti per inventare, anche a livello europeo, un welfare verde che coinvolga l’insieme dei servizi pubblici e la riorganizzazione delle città. Ma una simile prospettiva non chiama in causa solo la sinistra. Si tratta di mettere in campo una strategia industriale e sociale: un nuovo “patto ecologico” tra i produttori che muova decisamente al di fuori del neoliberismo. Un patto che prenda le mosse dalla consapevolezza che, per la prima volta nella storia, siamo alla fine di un’epoca geologica cioè dell’epoca geologica in cui l’ambiente terrestre era fortemente condizionato dagli effetti dell’azione umana. E che pertanto si dovrebbe incominciare ad avvertire che lo “sviluppo distruttivo” ha un limite e che si deve «crescere come umani» in modi del tutto inesplorati. Quella che chiamerei la “crescita felice”.