«Quello contro Cumhuriyet è stato un processo politico»
Intervista Parla Tora Pekin, legale dei giornalisti condannati in Turchia a un totale di 73 anni: «Il verdetto è un messaggio: non fate giornalismo. Altri tribunali si ispireranno a questa sentenza. Non è un mero procedimento penale: è una lotta per la democrazia»
Intervista Parla Tora Pekin, legale dei giornalisti condannati in Turchia a un totale di 73 anni: «Il verdetto è un messaggio: non fate giornalismo. Altri tribunali si ispireranno a questa sentenza. Non è un mero procedimento penale: è una lotta per la democrazia»
Condannati a 74 anni e 11 mesi di carcere, colpevoli di giornalismo. Così si è concluso il processo a 15 tra giornalisti e dirigenti dello storico quotidiano turco Cumhuriyet, ritenuto colpevole di aver «favorito e sostenuto organizzazioni terroristiche». Un processo durato 17 mesi, costruito interamente sui titoli degli articoli e sui post attraverso i social media.
Un verdetto che dimostra come il giornalismo sia stato trasformato in un crimine, che il sistema giudiziario in Turchia è fallito, che l’Europa resta a guardare mentre cola a picco. Tra le opposizioni c’è sdegno, ma non si può parlare: dopo la vendita del gruppo editoriale Dogan alla holding Demiroren, il 97% dei media del paese sostiene il governo.
Ne parliamo con Tora Pekin, avvocato difensore di Cumhuriyet.
Un primo commento a caldo delle sentenze?
Data la natura politica di questo processo, erano attese. Ci stupisce la lunghezza, perché in altri processi con le medesime imputazioni non sono stati superati i 6 anni. Ma ciò a cui dobbiamo guardare non è il numero degli anni, ma a come sia stato possibile che questo processo sia partito.
L’accusa riguardava le pubblicazioni del quotidiano e supposti crimini amministrativi della fondazione, ma invece di procedimenti disciplinari giornalistici o indagini finanziarie si è parlato subito di terrorismo.
Questo è un caso unico nella storia della giurisprudenza turca. La corte ha considerato Cumhuriyet come una singola entità e ha concluso che le sue pubblicazioni abbiano fornito sostegno a organizzazioni terroristiche senza riuscire a stabilire quali pubblicazioni siano assimilabili a un sostegno a organizzazioni illegali.
Sostegno al Pkk, all’organizzazione Dhkp/c e alla setta dell’imam Fetullah Gulen. Organizzazioni che hanno agende diverse se non diametralmente opposte.
Non c’è alcuna logica. L’unico tratto comune è che queste organizzazioni sono tutte contro il governo, per cui nel pensiero delle autorità devono necessariamente andare a braccetto.
La sentenza della corte accettata questa illogicità…
Il sistema giudiziario in Turchia è sotto un’enorme pressione e dobbiamo supporre che alcuni giudici stiano volontariamente sostenendo la linea politica dettata da Erdogan. È un processo iniziato con scopi politici e così concluso. Il procuratore che per primo ha aperto il fascicolo, Murat Inam, è oggi sotto processo per gulenismo, rischia l’ergastolo. Come altri, non è nient’altro che un ostaggio.
Le vostre perizie sull’applicazione Bylock, considerata dalle autorità il mezzo di comunicazione dei golpisti, hanno avuto ripercussioni su molti altri processi.
Abbiamo richiesto due analisi del telefono di uno degli imputati, Emre Iper, a due esperti di caratura internazionale, Koray Peksayar e Tuncay Besikci. Entrambi hanno confermato sul telefono Bylock non c’era mai stata e che le connessioni ai server erano dovute ad altri software. Ma la corte non ha mai accolto le nostre perizie. Soltanto dopo queste sono ricomparse ad Ankara: il Mit (i servizi segreti turchi) ha pubblicato un rapporto che giunge alle medesime conclusioni: almeno 11.200 persone erano state accusate ingiustamente.
Procederete in appello?
Prima alla corte d’appello di primo grado, poi alla corte suprema. Ma non ci aspettiamo di avere risultati prima di due o tre anni.
E la Corte europea dei diritti umani (Cedu)?
Se sarà necessario. Cinque anni fa la Corte emise un verdetto in favore di Ahmet Sik (giornalista tra i condannati e autore di fondamentali indagini su Gulen). Stabilì che i suoi diritti erano stati violati. Tutti i procuratori allora coinvolti sono oggi in carcere per associazione terroristica. A distanza di cinque anni, Sik viene condannato per aver esercitato gli stessi diritti. Le condizioni in Turchia oggi sono più disperate di allora e le accuse a lui rivolte ancora più assurde. Il suo fascicolo è stato consegnato alla Cedu, ma stavolta non ha voluto pronunciarsi. Ci sono delle ragioni dietro questa mancanza, che comprendiamo ma non possiamo accettare. La prima è che, dopo una prima pronuncia, la corte si ritroverebbe inondata da petizioni. Centinaia di migliaia di richieste sulle loro scrivanie. La seconda è una mia convinzione, condivisa da tutti i giornalisti che rappresento: la Cedu non ha agito per non turbare le relazioni tra Unione europea e Turchia.
Che impatto avrà questo processo sugli altri in corso?
Questo verdetto consegna un messaggio chiaro: quello di non fare giornalismo. È logica conseguenza che altri tribunali si ispireranno a questa sentenza nei casi di loro competenza.
Da uomo di legge, come ha vissuto questo processo?
Le dico questo: almeno 1.200 diversi avvocati hanno chiesto di prendere parte a questo caso. Lavoro per Cumhuriyet da 18 anni, questi non sono soltanto i miei clienti, sono amici. E siamo tutti convinti che questo processo non è semplicemente un procedimento penale contro un giornale storico: è una lotta per la democrazia.
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