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Quell’attacco mirato all’«ayatollah economy»

Quell’attacco mirato all’«ayatollah economy»Un oleodotto del Golfo Persico

Repubblica Islamica L'economia controllata da una parte dei governanti rappresenta la spina dorsale del potere

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 24 luglio 2018

Quanto sono davvero ricchi gli ayatollah iraniani? Dopo il violento scambio di accuse tra Trump e Rohani è intervenuto il segretario di stato Mike Pompeo per affermare che la Guida Suprema Alì Khamenei ha un fondo speculativo segreto da 95 miliardi di dollari. In realtà Washington fa finta di non sapere che questo capitale è noto a tutti. Si tratta del valore degli asset gestiti dalla Setad, una delle Bonyad, le fondazioni esentasse che amministrano gran parte dell’economia iraniana dopo la rivoluzione del 1979.

Ma come funziona l’«ayatollah economy» che in questi mesi ha visto moltiplicarsi – oltre alle cadute del rial sul dollaro – le proteste popolari e del bazaar, un tempo storico sostenitore dei religiosi al potere? La Setad di Khamenei, ovvero «Setad Ejraiye Farmane Hazrate Imam», «Sede per l’esecuzione degli ordini dell’Imam», fu costituita nel 1989 dall’Imam Khomeini, con il compito di gestire le proprietà sequestrate negli anni caotici post rivoluzionari per poter aiutare i poveri e i veterani della guerra durata otto anni contro l’Iraq (un milione tra morti e invalidi).

All’epoca dello Shah 100 famiglie introdotte alla corte dei Palhevi controllavano l’80% dell’economia che oggi è passata nelle mani dell’élite al potere. La Setad doveva rimanere in vita solo un paio d’anni ma nel corso del tempo si è trasformata in un colosso immobiliare che ha acquistato partecipazioni in decine di aziende in quasi tutti i settori: finanza, petrolio, telecomunicazioni, dalla produzione di pillole anticoncezionali all’allevamento degli struzzi. Tra portafoglio immobiliare (52 miliardi di dollari) e quote societarie (43 miliardi) la Setad in un certo periodo, con le quotazioni dell’oro nero al ribasso, aveva un valore superiore alle esportazioni petrolifere. Le Bonyad, le Fondazioni i cui utili non sono sottoposti a prelievo fiscale, sono il cuore dell’economia: detengono circa il 50% del Pil e hanno sottratto spazio ai privati favorendo soltanto alcuni di loro, quelli vicini alla cerchia del potere che ricordiamolo è comunque sempre a geometria variabile, a seconda delle stagioni politiche.

Anche i Pasdaran, i Guardiani della rivoluzione, impegnati in battaglia in Iraq e in Siria, e che appoggiano gli Hezbollah libanesi, hanno la loro fetta importante di potere economico da preservare e sviluppare, così come gli ayatollah. È con loro che si fanno gli affari importanti in Iran: ministri e potere politico si limitato a distribuire appalti e commesse. Negli otto anni di presidenza di Mahamoud Ahmadinejad, le Guardie hanno ottenuto lo sfruttamento di alcuni giacimenti di gas a South Pars, la più grande riserva del mondo, e attraverso le loro Fondazioni hanno incamerato attività industriali e commerciali per un valore stimato di 120 miliardi di dollari, raccontava qualche tempo fa l’economista Said Leylaz. Tra queste la compagnia telefonica statale (8 miliardi di dollari) e si sono accaparrati commesse pubbliche importanti come la metro di Teheran con la società di costruzioni Khatam Al Anbia.

«L’Ayatollah e la Pasdaran Economy» delle Fondazioni è la spina dorsale del potere, una rete clientelare e di welfare state dove le Bonyad e le Fondazioni delle cooperative dei Basiji (le forze paramilitari) hanno fini istituzionali caritatevoli e di assistenza ma non rinunciano ai profitti, coinvolgendo più o meno direttamente milioni di iraniani: sono quindi essenziali nella fabbrica del consenso.

La domanda di fondo è questa: è possibile riformare un’economia rivoluzionaria, per di più islamica? L’impresa è ardua, soprattutto adesso che con le sanzioni Usa l’Europa dovrà decidere se essere ancora protagonista in Iran o regalare, sotto le pressioni americane, questo Paese e il suo petrolio, oltre che all’ala militare dei Pasdaran, a Cina e India, i due maggiori clienti di Teheran (l’Italia è al terzo posto). In Iran ci sono circa 80mila tra moschee, templi e istituzioni religiose che amministrano terre e imprese come facevano i monasteri nel Medioevo europeo, quando la Chiesa faceva concorrenza in tutti i campi al potere temporale.

A Mashad la Fondazione Reza, sorta intorno al famoso santuario dell’Ottavo Imam, fattura il 7% del Pil iraniano e tiene in pugno l’economia del Khorassan; la Bonyad degli Oppressi (Mostazafan Foundation), da dove viene anche l’attuale capo della Setad, ha un volume d’affari stimato oltre 12 miliardi di dollari l’anno, la Bonyad Shaid (Fondazione dei Martiri) controlla un centinaio di società e alla Borsa di Teheran il 60% della capitalizzazione è costituito da compagnie che ruotano intorno all’ayatollah economy. Correggere il sistema è la sfida in cui ha fallito finora il presidente Rohani, un pragmatico nel mirino dei fondamentalisti.

Colpire al cuore questo sistema, con un mix di azioni economiche e destabilizzanti, è l’obiettivo di Usa, Israele e Arabia Saudita: ognuno con le armi che ha in mano, dalle sanzioni alla finanza, dalla produzione all’export di petrolio, alle incursioni militari. Non è solo una questione economica ma di sicurezza per tutto il Medio Oriente e l’Europa: le conseguenze non le pagherà solo Teheran, come minaccia Trump, ma anche noi. As usual.

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