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Quella moda da stadio inglese, tra tweed e terraces

Quella moda da stadio inglese, tra tweed e terraces

La mostra «Art of the Terraces», sottoculture giovanili alla Walker Art Gallery di Liverpool

Pubblicato più di un anno faEdizione del 18 febbraio 2023
Luca ManesLIVERPOOL

Arte, moda e gioco del calcio. La sintesi perfetta è contenuta nella mostra Art of  the Terraces, in programma alla Walker Art Gallery di Liverpool fino al prossimo 12 marzo. Ma anche di più, perché a spiccare è l’accurata narrazione delle sottoculture giovanili legate al mondo del beautiful game. Una in particolare: quella casual, l’unica generata in maniera esclusiva sulle gradinate degli stadi e non cooptata da movimenti legati poi in particolare a un determinato filone musicale – poi gruppi e cantanti hanno avuto sicuramente la loro influenza, basti pensare al wedge, al ciuffo di David Bowie imitato soprattutto nella Merseyside, cui i curatori hanno dedicato una spazio ad hoc.

Il luogo di nascita dei casual se lo contendono proprio Liverpool e la storica, acerrima rivale Manchester. Tutto ebbe inizio in piena era punk, nel 1977. La matrice working class era innegabile, la passione per il football pure, così come in qualche caso anche la voglia di «fronteggiare» i supporter rivali. Nel mix entrava in maniera massiccia la moda, fatta di un utilizzo compulsivo di magliette, pantaloni e scarpe di marca.

Quanto mai appropriato, allora, che la prima sala della mostra sia incentrata sui capi d’abbigliamento iconici che i tifosi indossavano per andare alla partita – e praticamente mai il resto della settimana. Non era solo un trionfo delle britanniche come Lyle & Scott o Fred Perry, ma si faceva apprezzare anche una nutrita presenza di griffe italiane, tanto che uno dei più celebrati e amati giubbotti «da stadio» rimane il Mille Miglia della CP Company. In maniera a dir poco improbabile e inaspettata, divennero di culto altre aziende nostrane quali Fila e Sergio Tacchini, che facevano affari nel mondo del tennis. In quel periodo le magliette di campioni leggendari del calibro di Bjorn Borg e John McEnroe andarono letteralmente a ruba e non necessariamente per essere usate da appassionati della racchetta.

Come spiegano i fondamentali libri Casuals di Phil Thornton e Perry Boys di Ian Hough, il termine casual cominciò a circolare solo nel 1983, comparendo nero su bianco sulla rivista The Face. Prima c’erano gli scallies (i ragazzi di Liverpool), i Perry Boys (quelli di Manchester) e quando la nuova sottocultura tracimò verso sud, i dressers (Londra e dintorni). Quasi pleonastico ricordare che i reduci dei vari filoni sosterranno di essere stati loro gli iniziatori del culto, tuttavia va anche detto che ormai la culla del movimento casual è ritenuta quasi unanimemente il Lancashire – come accennato rimane ben aperta la diatriba tra liverpooliani e mancuniani.

Soprattutto i tifosi del Liverpool, a quell’epoca club dominatore in lungo e in largo del calcio europeo, approfittarono della numerose trasferte nel «continente» per fare man bassa di capi d’abbigliamento sportivi e alla moda – all’epoca ovviamente non c’era Amazon – e svilupparono una vera e propria ossessione per le sneaker dell’Adidas. Peter Hooton, dal 1982 al 1988 uno dei responsabili della mitica fanzine The End, nel documentario debitamente intitolato Casuals riporta come l’amore per la calzature dell’azienda tedesca dei ragazzi della Merseyside (e non solo) fece la fortuna del giovane imprenditore di Liverpool Robert Wade Smith, il quale aprì un negozio su Slater Street, frequentatissimo dai casual e dove la vendita di modelli Forest Hills, Spezial o Trimm Trabs raggiunse dei picchi inimmaginabili. Sempre a Liverpool, nel 1983 spuntò fuori una correzione sul tema della moda casual: il cosiddetto look da insegnante di geografia, anche conosciuto come retro scally. Di base c’era chi andava a vedere le partite sfoggiando una giacca di tweed, casomai appartenuta al nonno o al babbo, sopra una camicia elegante e un paio di jeans.

La parte più prettamente artistica della mostra è comunque incentrata su dipinti che glorificano la vita sulle terraces, le gradinate dove si stava in piedi e si tifava in maniera il più possibile spontanea. Ci sono ancora infiniti riferimenti al modo di vestire, ma anche se non essenzialmente alla sacralità del sabato pomeriggio – quando, prima dell’avvento delle pay tv, si giocavano tutte le partite – e al brivido della trasferta, in prevalenza sfruttando la capillare rete ferroviaria britannica.

Le terraces sono state una delle vittime del vituperato – almeno dai casualmodern football, e hanno dovuto far posto ai seggiolini di plastica degli innumerevoli impianti stato dell’arte, ma spesso con zero romanticismo, che hanno invaso il Paese al posto dei classici e stilosi stadi disegnati per lo più dall’architetto scozzese Archibal Leitch negli anni Trenta. Qualcuna si trova ancora, per lo più nelle divisioni minori, per la gioia di chi, come chi scrive, preferisce atmosfere meno «anestetizzate».

La mostra si chiude con quella che è la sala più avvolta da un alone di nostalgia, soprattutto per chi ha ormai raggiunto o superato i cinquanta anni: la riproduzione di una cameretta di un ragazzo degli inizi degli anni Ottanta. Ci sono i poster di Quadrophenia, dei Jam e dei Pink Floyd, il tabellone dove scrivere i risultati dei Mondiali del 1982 (forse gli ultimi ancora a misura di tifoso della classe operaia), due paia di scarpe Adidas e un jeans sparsi intorno al letto e il mitico campo del Subbuteo steso per terra, con tanto di tribuna e luci old style, oltre alle 22 miniature in plastica. A dirla tutta, in un angolo ci sono anche i primordiali giochi elettronici a tema calcistico. Un riferimento quasi ad anticipare un cambiamento epocale che avrà un impatto sul movimento, il quale però, in Inghilterra come in altre parti del mondo, continua a portare avanti il suo credo provando a fare i conti con un contesto a tratti cambiato anche in maniera molto radicale.

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